Sociologia Contemporanea

Di seguito alcuni contributi tratti da “Sociologia Contemporanea” (Rivista Telematica di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale. Pubblicazione Online ISSN 2421-5872). Anno 2021

Criminologia Penitenziaria

Di seguito alcuni contributi tratti da “Criminologia Penitenziaria” (Rivista Telematica di Diritto penitenziario e Politiche criminali. Pubblicazione Online ISSN 2704-9094). Anno 2021

I lati oscuri della fiducia

Il presente contributo, non a caso intitolato i lati oscuri della fiducia, per quanto tratti un argomento che scaturisce da una questione prettamente di diritto, pone invece in risalto – a mio avviso se colti – aspetti sociali di rilevanza tutt’altro che secondaria, i quali, quindi, al di là del mero interesse giuridico, andrebbero giustappunto attenzionati secondo paradigmi psicosociali. Tali premesse inducono quindi a riflettere sul fatto che nonostante la presenza di innumerevoli meccanismi legati alla evoluzione tecnologica, i quali in qualche maniera riposano, o almeno dovrebbero riposare, su una fiducia sistemica, l’essere umano continua invece ad avere la necessità di ricorrere al classico principio di fiducia, ma, spesso a sua insaputa, senza tenere in seria considerazione proprio i lati oscuri della fiducia.

Sicché, attraverso la comprensione di questo complesso di elementi, sembra ragionevolmente possibile ritenere che i lati oscuri della fiducia trasmutino in quel concetto di fiducia cosiddetta attiva, alla base della quale sussiste il riconoscimento dei valori e della dignità propri di ciascun individuo e presenti ai vari livelli sociali.

Ebbene, tornando al caso giuridico oggi in esame, credo che i lati oscuri della fiducia abbiano fortemente influito non solo, evidentemente, sull’esito della causa, quanto sulle motivazioni recondite che l’hanno determinata. Di fatto, un’impiegata comunale impugnava la sentenza pronunciata in sede di appello la quale aveva dichiarato legittimo il licenziamento della stessa lavoratrice, accusata di avere effettuato accessi al protocollo informatico dell’ufficio in assenza di idonee ragioni, ovvero con l’interesse di conoscere documenti che non rientravano tra quelli di competenza del proprio settore di assegnazione.

Va comunque precisato che il primo grado di giudizio scagionava l’impiegata poiché «gli accessi non avevano recato danni all’amministrazione né aveva comportato la divulgazione di notizie che dovevano rimanere riservate». Tesi respinta nei gradi successivi, in quanto, in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, va proprio accertato «se i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario», e dunque se «le ragioni per le quali la condotta della lavoratrice, tenuta in violazione dei doveri propri del dipendente pubblico, era da ritenere di gravità tale da giustificare il recesso» (Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sent. 3819/2021).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 15A21 del 09/12/2021


Comportamento del detenuto

È sanzionabile il comportamento incorreggibile del detenuto, reo, nel caso qui in esame, di avere attuato la cosiddetta battitura. Sicché, è da riformare la decisione del Tribunale di sorveglianza, a conferma della decisione del Magistrato di prime cure, che aveva annullato la sanzione disciplinare inflitta ad un detenuto, consistente nella esclusione dalle attività in comune poiché responsabile di avere battuto per lungo tempo e di notte alcuni oggetti sul cancello della camera di pernottamento.

Ebbene, secondo il Tribunale di sorveglianza, non sussisteva il presupposto per l’esercizio del potere disciplinare in quanto la battitura «inserita nel contesto di una pacifica protesta collettiva contro le restrizioni, in seguito abolite, riguardanti l’accensione dei televisori, non era degenerata in comportamenti violenti, minatori od offensivi, non aveva causato l’interruzione del servizio, o interferito gravemente su di esso, né provocato disordini o sommosse. Essa non aveva neppure prodotto danni a beni dell’Amministrazione». Inoltre, andava anche escluso che la battitura «potesse essere qualificata come un atteggiamento o comportamento molesto nei confronti della comunità e potesse così integrare l’infrazione specificamente contestata».

Propone ricorso per cassazione il Ministero della giustizia, e così può riepilogarsi la decisione dei giudici di legittimità che di fatto lo hanno accolto, da cui può ragionevolmente desumersi che non trova giustificazione il comportamento incorreggibile del detenuto. Orbene, siccome da un lato «il sistema disciplinare vigente negli istituti penitenziari è informato ai principi di tipicità, offensività e gradualità», dall’altro la «ratio della previsione d’infrazione risiede nell’esigenza di garantire, all’interno degli istituti, il rispetto delle regole e delle condizioni di civile convivenza, che rappresentano premessa indispensabile, ancorché di per sé sola non sufficiente, per l’ordinato svolgimento della vita penitenziaria e per la realizzazione degli obiettivi del relativo trattamento». È quindi corretto affermare che ai fini dell’infrazione afferiscono alla molestia «tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo, e comunque di turbamento della tranquillità e della quiete della comunità penitenziaria, che producono un impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane, di relazione e di lavoro di quanti facciano parte della comunità stessa». Perciò, «le emissioni sonore prodotte dalle battiture, e il frastuono complessivamente suscitato, in rapporto alla forma collettiva assunta dalla protesta - attività materiali, non riducibili a mere espressioni di pensiero dissenziente - appaiono manifestazioni paradigmatiche di molestia nel senso appena specificato», e dunque sanzionabili (Cassazione, Sez. I Pen. Sent. 44133/21 del 29/11/2021).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 18E21 del 04/12/2021

Il giudizio sul percorso rieducativo

Il giudizio sul percorso rieducativo rispetto alla valutazione positiva del periodo di carcerazione del condannato deve tenete debitamente conto dei nuovi delitti eventualmente consumati. Infatti, gli illeciti commessi successivamente ai semestri di riferimento per i quali si propone istanza per ottenere la liberazione anticipata, incidono circa il giudizio sul percorso rieducativo, determinando quindi il diniego del beneficio richiesto.

Nel caso oggi proposto, il Tribunale di sorveglianza, confermando la decisione di primo grado, rigettava la istanza del condannato finalizzata ad ottenere la liberazione anticipata sul presupposto che «il comportamento del condannato, posto in essere dopo il ritorno in libertà, quando venga considerato quale espressione di una non effettiva partecipazione alla precedente opera di rieducazione, può giustificare retroattivamente il diniego del beneficio in relazione alla detenzione in espiazione». Inoltre: «deve notarsi, con riferimento al caso concreto in esame, che, come sopra anticipato, le censure formulate nell’atto di ricorso sono infondate. La decisione del Tribunale di sorveglianza è rispettosa dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in materia. È chiara e pienamente ragionevole la motivazione dell’ordinanza, che nota circostanze specificamente valorizzate per giustificare il diniego del beneficio, implicitamente ricavando da esse che il (condannato, ndr) non ha dimostrato di aver partecipato all’opera di rieducazione. In particolare, è assorbente rilevare, a parte ogni considerazione sugli altri argomenti espressi nell’ordinanza, che essa pone in luce che (l’interessato, ndr) è stato condannato per reati, anche gravi».

In sintesi: «lo sviluppo argomentativo della motivazione posta a sostegno dell’ordinanza impugnata, esauriente e immune da vizi logici e giuridici, risulta basato su una coerente analisi critica degli elementi disponibili e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo. Detta motivazione, quindi, supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato deve arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento delle circostanze fattuali».

Sicché, dalle argomentazioni suesposte, ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cassazione, Prima Sezione penale, Sentenza 41358/2021, circa il giudizio sul percorso rieducativo rispetto alla valutazione positiva del periodo di carcerazione).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 15E21 del 25/11/2021

L’articolo 4 della Costituzione

L’articolo 4 della Costituzione è tanto importante, quanto, spesso, sottostimato o addirittura ignorato. Vedasi, per esempio, specie negli ultimi tempi, come nei caotici talk show (taluni dalla discutibile utilità sociale) sono trattati argomenti afferenti a reali o presunte violazioni della Costituzione, in particolare del suo primo articolo, dove si legge che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ebbene, l’articolo 4 della Costituzione, invece, nella sua prima parte stabilisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Così formulato, dalla norma sembra potersi ricavare che se da un lato tale diritto non conferisce al cittadino la pretesa di ottenere un posto di lavoro, dall’altro pare altresì vero che lo Stato non dovrebbe porre in atto alcuna misura che impedisca, anche parzialmente, il pieno ed effettivo soddisfacimento dell’inviolabile diritto a poter lavorare. Qualsiasi siano le ragioni che lo dovessero determinare. Sicché, ecco che il dettato normativo appena richiamato sollecita i pubblici poteri alla creazione delle condizioni economiche, sociali e, non da ultimo, giuridiche, che garantiscano il lavoro a tutti i consociati, attraverso l’attuazione di politiche volte proprio al raggiungimento di una ragionevole piena occupazione.

Perciò, il diritto al lavoro è prima di tutto un diritto di libertà, il quale si concretizza anche nella possibilità di scegliere la propria attività lavorativa. Ma non è tutto, infatti, il diritto al lavoro e dunque all’esercizio di una professione o attività liberamente scelta trova idonea tutela anche a livello sovranazionale, dove l’articolo 15 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Libertà professionale e diritto di lavorare) stabilisce che: “Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”.

Ma a questo punto nasce l’esigenza di porsi almeno un paio di domande: il lavoro, è o no lo strumento attraverso il quale i consociati si procurano i mezzi per il sostentamento personale e delle rispettive famiglie? Ed ancora: il diritto al lavoro, rappresenta o no il presupposto alla base del quale può materialmente attuarsi l’esercizio di ogni altro diritto costituzionalmente garantito?

Orbene, se le risposte dovessero essere affermative, come ritengo lo siano, allora, in tema di sicurezza individuale e collettiva, un conto è regolamentare i processi lavorativi, per esempio obbligando i lavoratori ad utilizzare specifici dispositivi, fossero anche i più disagevoli possibile; altro è subordinare l’accesso ai luoghi di lavoro, e dunque al pieno soddisfacimento del diritto al lavoro, a qualsivoglia altra condizione. Del resto, oggi la tecnica e la scienza consentono di avvalersi di un’ampia gamma di misure a tutela della sicurezza che ogni altra tipologia di compressione del suddetto diritto al lavoro è a dir poco strumentale, se non addirittura criminogeno, e dunque contro l’articolo 4 della Costituzione.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 14A21 del 25/11/2021

Configurazione del reato di estorsione

Nell’odierno contributo ho ritenuto trattare l’ipotesi di configurazione del reato di estorsione, previsto dall’articolo 629 del codice penale, secondo cui è punibile con la reclusione “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Pertanto, pur non soffermandomi su alcun caso specifico, credo comunque opportuno offrire al lettore qualche spunto di riflessione di carattere generale. Infatti, per la configurazione del reato di estorsione, la norma richiamata presuppone la perpetrazione di una “violenza”, ma senza specificare oltre, perciò credo ragionevole poter affermate che, dal punto di vista criminologico, tale termine non afferisce necessariamente, o comunque soltanto alla violenza fisica, bensì alla più complessa e subdola violenza di natura psicologica. Caratterizzata, appunto, da tutta una serie di comportamenti in danno della vittima tendenti a lederne la propria dignità, quindi sottometterla ai voleri dell’agente, ingenerando nella medesima uno stato di profondo malessere che spesso conduce anche a gesti autolesivi irreparabili.

No da ultimo, ricordo come l’Organizzazione Mondiale di Sanità definisce il concetto di salute, cioè «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità». Va da se, quindi, che obbligando qualcuno a fare qualcosa contro la propria volontà e autodeterminazione, si rischia di integrare piena violazione della norma richiamata, probabilmente in combinato disposto con altre; per esempio, se il reato è perpetrato da più persone ed in talune circostanze, ci si potrebbe trovare innanzi ad un’associazione per delinquere finalizzata all’estorsione, violenza privata, lesioni volontarie. Anche perché, lo ricordo, l’art. 629 c.p. è chiaro nel delineare sia l’ipotesi di violenza, quanto quella di minaccia (alternativamente), sicché se qualcuno intende imporre la propria volontà minacciando la vittima di un danno ingiusto, èrgo, non piegandosi ai suoi voleri, peggio ancora negandogli dei diritti costituzionalmente garantiti, ecco che il reato risulta configurato de plano. A nulla valgono ragioni di excusatio su alcunché addotte. Se poi tali condotte, di violenza o minaccia, sono ad opera di taluni soggetti che rivestono particolari ruoli nella società, allora il codice penale offre ulteriori soluzioni, la cui trattazione rimando ad altra pubblicazione. Tuttavia, per la configurazione del reato di estorsione, resta il nodo della costrizione e del procurare “a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”, ma credo non è difficile individuare sia l’una, sia gli altri due aspetti, specie nei palesi casi dove qualcuno si arricchisce, spregevolmente, approfittando di talune situazioni.

In conclusione, osservo che quanto qui brevemente descritto è ciò che ci si aspetta in un Paese democratico, per esempio l’Italia, dove le norme devono tassativamente ispirarsi, senza deroghe, al rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione. Cosa diversa riguarda i regimi autoritari, totalitari, sultanistici, autocratici in generale, ma anche nei casi dove si manifesti una deriva democratica, allorquando i vari organi che detengono il potere, compresi quelli amministrativi e di altro genere, dovessero coalizzarsi (per motivi di deferenza ossessiva e delirante, cecità intellettuale o smarrimento momentaneo) nell’orientare le proprie decisioni in altre direzioni.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 13A21 del 24/10/2021

APPENDICI

Ufficio Stampa della Corte costituzionale. Comunicato del 24 giugno 2021.

REMS, LA CORTE DISPONE UN’ISTRUTTORIA SULLE DIFFICOLTÀ DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA

I ministeri della Giustizia e della Salute, la Conferenza delle Regioni e l’Ufficio parlamentare di bilancio dovranno fornire alla Corte costituzionale una serie di informazioni sulle REMS - le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito dal 2012 gli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) – in relazione alle difficoltà registrate nell’applicazione concreta delle misure di sicurezza nei confronti degli autori di reato infermi di mente e socialmente pericolosi.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con l’ordinanza n.131 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi. Le informazioni richieste, raggruppate in 14 punti, dovranno essere fornite entro 90 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza alle autorità destinatarie.

L’intervento della Corte è stato sollecitato da un Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Tivoli, che aveva disposto il ricovero di un imputato in una residenza per l’esecuzione di una misura di sicurezza. A distanza di quasi un anno dal provvedimento, la misura era rimasta ineseguita a causa della carenza di posti disponibili nelle REMS della Regione Lazio. Il giudice aveva allora sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina sulle REMS, che affida ai sistemi sanitari regionali una competenza esclusiva nella gestione delle misure di sicurezza privative della libertà personale disposte dal giudice penale. Secondo il giudice, questa disciplina, sollevando il ministro della Giustizia da ogni responsabilità in materia, contrasta in particolare con la sua competenza costituzionale in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, prevista dall’articolo 110 della Costituzione. La Corte costituzionale ha ritenuto necessario acquisire, ai fini della decisione, una serie di informazioni concernenti il funzionamento concreto del sistema delle REMS, introdotto a partire dal 2012 in sostituzione di quello degli OPG. Nei 14 punti elencati nell’ordinanza si chiede, fra l’altro, di chiarire se esistano, allo stato, forme di coordinamento tra il ministero della Giustizia, il ministero della Salute, le ASL e i Dipartimenti di salute mentale volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei ricoveri nelle REMS; se sia prevista la possibilità dell’esercizio di poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni e se le difficoltà riscontrate siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie o ad altre ragioni.



Valutazione della pericolosità sociale

Il Tribunale di sorveglianza rigettava l’appello di un detenuto extracomunitario proposto avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza con cui era stata applicata la misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato italiano sul presupposto della persistente pericolosità sociale, desunta dalla gravità del reato di tentato omicidio, nonché dal precedente penale in materia di sostanze stupefacenti e dalla non risolta dipendenza da sostanze alcoliche e stupefacenti, ed anche dall’assenza di validi riferimenti familiari e risocializzanti in Italia.

Proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento, peraltro dichiarato infondato e dunque respinto con condanna al pagamento delle spese processuali, si legge nel provvedimento definitivo che «dal complesso delle argomentazioni difensive emerge, da un lato, l’asserita pretermissione di una serie di indici predittivi favorevoli, costituiti dalla attiva partecipazione al percorso rieducativo presso la Casa circondariale (…) con lo svolgimento di attività lavorativa sia all’interno, sia all’esterno del carcere (…) dal totale affrancamento dalla tossicodipendenza, dal conseguimento del diploma di scuola media superiore e dall’atteggiamento di resipiscenza nei confronti della vittima; e, dall’altro lato, la prospettazione di un sostanziale travisamento della disponibilità manifestata dalla zia (…) ritenuta tardiva nonostante l’ostacolo costituito dall’internamento del condannato in un Centro di rimpatrio, che non gli avrebbe consentito di prendere contatto tempestivamente con la donna».

Sicché: «ai fini della valutazione del requisito di attualità della pericolosità sociale, rilevante per l’esecuzione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, la condizione di irregolare presenza in Italia, dovuta alla mancanza, come nella specie, di un valido titolo di soggiorno, può contribuire a un giudizio sfavorevole di prognosi criminale qualora lo straniero, per effetto dello stato di irregolarità, si trovi, concretamente, in una condizione di impossibilità di procurarsi lecitamente i mezzi di sussistenza, con conseguente rischio di determinarsi alla commissione di nuovi reati. Valutazione che, nella specie, è stata correttamente compiuta dal Magistrato e dal Tribunale di sorveglianza, i cui provvedimenti sono destinati a integrarsi reciprocamente, senza che il relativo apparato giustificativo, diversamente da quanto dedotto dalla difesa, palesi alcun profilo dì illogicità manifesta» (Corte di Cassazione, Sez. I Penale, Sent. 32503/2021).

In sintesi, il Tribunale di sorveglianza ha adeguatamente valorizzato il grave precedente penale, le risalenti problematiche di dipendenza da alcol e droga, l’assenza di piena consapevolezza del percorso deviante, nonché l’assenza di idonei riferimenti familiari e risocializzanti sul territorio.

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 13E21 del 10/09/2021

Valori e norme culturali

Premesso che unitamente ai valori e norme culturali, anche i comportamenti e le pratiche variano considerevolmente da una cultura all’altra, nonché, letta la Direttiva 2000/78 del Consiglio dell’Unione europea del 27 novembre 2000, la quale stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – tenuto quindi conto che l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi comuni a tutti gli Stati membri; che il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; ed inoltre, che la discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale –, ebbene, a proposito di valori e norme culturali, la Corte di Giustizia UE ha dichiarato che le disposizioni di cui la Direttiva 2000/78, qui in premessa accennate, devono essere interpretate «nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto» (cfr. Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 15 luglio 2021, n. C-804/18 e C-341/19).

Il caso in esame ha riguardato la decisione di una educatrice specializzata di indossare il velo islamico durante le ore di servizio, alle dipendenze di una società, dichiaratasi apartitica e aconfessionale, che gestisce molti asili nido in un Paese dell’Unione europea.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 11A21 del 24/07/2021

Invalidità e carcere

Nel caso oggi in esame, il Tribunale di sorveglianza rigettava la richiesta di un detenuto finalizzata ad ottenere il beneficio del differimento facoltativo della pena, nella forma della detenzione domiciliare, in base, secondo le argomentazioni difensive, ad una conclamata gravità dello stato di salute del soggetto interessato, affetto, appunto, da gravi patologie e con ciò costretto su una sedia a rotelle e bisognevole di costante aiuto per tutte le mansioni di vita quotidiana. Rendendo, quindi, tali condizioni cliniche, sempre ad avviso della difesa, inumana la detenzione e preclusive circa la capacità di partecipazione consapevole al percorso rieducativo.

Ebbene, se da un lato la concessione della detenzione domiciliare, il differimento facoltativo e obbligatorio dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica e psichica sono istituti che si fondano sul principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza distinzione di condizioni personali, e su quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, ed inoltre su quello secondo il quale la salute è un diritto fondamentale dell’individuo; dall’altro, a fronte di una richiesta di differimento dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare per gravi ragioni di salute, il giudice deve valutare se le condizioni di salute del condannato possano oggettivamente essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari, e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto anche conto della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad una analisi comparativa con la pericolosità sociale del predetto e alla possibilità che un eventuale rischio di recidiva, anche residuo, sia adeguatamente fronteggiabile con la detenzione domiciliare. Sicché, all’esito della valutazione dei fatti, il «giudice deve operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze di certezza e indefettibilità della pena, nonché di prevenzione e di difesa sociale, da una parte, e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, dall’altra, al fine di individuare la situazione cui dare la prevalenza». Per cui, ai fini dell'accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, non è necessaria una incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma «occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario» (cfr. Cassazione, Sez. I Pen. Sent. 26272/21).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 12E21 del 24/07/2021

Il Daspo negli impianti sportivi

Il caso oggi in esame riguarda il Daspo negli impianti sportivi, vale a dire la misura del divieto di accesso alle manifestazioni sportive che la Questura ha adottato nei confronti di un soggetto per un periodo di cinque anni. L’interdizione ha incluso tutti gli impianti sportivi situati sul territorio nazionale e degli Stati membri dell’U.E. ove si svolgano, appunto, manifestazioni calcistiche. Ora, siccome è un tema abbastanza riscorrente nel panorama giuridico-sociale del nostro Paese, cosa ha di particolare il caso odierno rispetto alla media? Ebbene, la decisione di pubblicare proprio il caso oggi scelto sta nel fatto che il provvedimento del Daspo negli impianti sportivi è stato adottato no, come spesso accade, per comportamenti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, o comunque devianti più in generale, assunti durante una manifestazione di gara, bensì durante un allenamento di una squadra di calcio. Nella specie si è trattato di minacce rivolte all’arbitro.

Sicché, impugnata la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale Amministrativo Regionale, l’interessato, riproponendo i medesimi motivi avverso il provvedimento del Daspo negli impianti sportivi, ha visto demolire una dopo l’altra tutte le argomentazioni avanzate a sua discolpa. Infatti, nello specifico, la ratio delle disposizioni normative in materia «indica con chiarezza che le condotte sanzionabili sono non soltanto quelle realizzate in occasione di una manifestazione sportiva, ma anche quelle poste in essere a causa della manifestazione sportiva stessa». E che pertanto, in tale contesto di riferimento «non è dubitabile che gli episodi in contestazione verificatisi durante l’allenamento di una squadra di calcio partecipante alle competizioni previste dalle federazioni sportive (…) sono strettamente collegati con le manifestazioni sportive, secondo un rapporto di diretta causalità».

Tutto questo, secondo i giudici amministrativi, si traduce nel fatto che il provvedimento impugnato in primo grado è stato correttamente adottato in quanto in presenza dei necessari presupposti, ovvero che tutti gli «elementi istruttori raccolti dall’amministrazione sono pienamente idonei a dimostrare la gravità della condotta contestata all’appellante certamente adeguata a innescare possibili episodi pericolosi, alla stregua del giudizio prognostico questorile, in contesti alquanto delicati come quelli che traggono origine a causa di un avvenimento sportivo e che ben possono facilmente degenerare creando pericoli per l’ordine e sicurezza pubblica» (Consiglio di Stato, Sezione Terza, Sentenza n. 4123/21). In definitiva, il mero allenamento non può considerarsi estraneo al concetto di manifestazione sportiva, e che, dunque, i comportamenti minacciosi verificatisi in tali circostanze sono parimenti sanzionabili con il Daspo.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 10A21 del 16/06/2021

Dei delitti contro l’onore

Torno sul tema dei delitti contro l’onore considerato che, appunto, non è la prima volta che ne tratto attraverso le mie pubblicazioni. Un esempio lo è il reato di diffamazione aggravata, laddove un soggetto si rivolge a terza persona apostrofandola col termine omosessuale. Ebbene, premesso che nel nostro Paese la Corte Suprema di Cassazione è al “vertice della giurisdizione ordinaria” e che tra le principali funzioni che le sono attribuite vi è quella di assicurare “l’uniforme interpretazione della legge”, tuttavia non deve destare chissà quali perplessità se alle volte capita di osservare decisioni assunte dal medesimo consesso diametralmente opposte, anche se riferite al medesimo argomento giuridico, poiché ogni fato/reato ha una sua genesi ed evoluzione distinta e non sovrapponibile con altre vicende, seppur analoghe o apparentemente tali.

Per esempio, qualche anno fa, fu annullata la condanna inflitta ad una persona che aveva appellato un uomo come omosessuale, in quanto era «da escludere che il termine omosessuale utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto» (cfr. Cassazione, Sez. V Penale, Sent. 50659/16, cit. in contributo).

Tanto premesso, il caso oggi preso in esame ha riguardato la condanna inflitta ad un «transessuale esercente la prostituzione» il quale, attraverso il profilo social, quindi comunicando con più persone, aveva sostenuto l’omosessualità di un certo soggetto e di aver con lo stesso intrattenuto un rapporto sessuale, nonché lo «aveva apostrofato come frocio e schifoso». Sicché, disattesa ogni argomentazione difensiva, con la sentenza qui trattata, la cassazione si è soffermata sul principio di diritto secondo cui le suddette espressioni costituiscono «oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate – in ogni dove – dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono – per recare offesa alla persona – proprio ai termini utilizzati dall’imputato»; e che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca social integra un’ipotesi di diffamazione aggravata «poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone» (cfr. Cassazione, Sez. V Penale, Sent. 19359/21). Insomma, in tema dei delitti contro l’onore, specie in quest’ultimo caso, la Suprema Corte non ha ritenuto plausibile applicare il principio per cui è «da escludere che il termine omosessuale utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo».

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 09A21 del 24/05/2021

In tema di custodia di animali

L’argomento odierno si riferisce ad un evento tutt’altro che isolato, infatti in tema di custodia di animali da parte del detentore presuppone in capo al medesimo la responsabilità in caso l’animale cagioni danni a terzi. Il caso in esame, giustappunto in tema di custodia di animali, ha riguardato un soggetto condannato per il reato di lesioni colpose gravi nei confronti di un ciclomotorista al quale il cane dell’imputato aveva attraversato la strada facendolo cadere rovinosamente a terra. Il giudice fondava il giudizio di responsabilità dell’accusato sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa che trovavano riscontro negli accertamenti della polizia giudiziaria lungo la sede stradale interessata dal sinistro, ovvero dal rinvenimento della carcassa del cane che risultava riconosciuto nell’immediatezza dal medesimo proprietario. Pertanto ne riconosceva la penale responsabilità a causa dell’omessa custodia dell’animale uscito dalla pertinenza abitativa del proprietario prospiciente la strada, invadendo appunto la sede stradale costituendo così ostacolo imprevedibile alla marcia del ciclomotorista.

Ebbene, proposto ricorso per cassazione, il consesso di legittimità, richiamando precedente giurisprudenza, ha precisato che «la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l’obbligo di controllare e di custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all’interno dell’abitazione (…) laddove la pericolosità del genere animale non è limitata esclusivamente ad animali feroci ma può sussistere anche in relazione ad animali domestici o di compagnia quali il cane, di regola mansueto così da obbligare il proprietario ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell’animale».

Ed inoltre i giudici di merito hanno «adeguatamente rappresentato come l’insorgere della posizione di garanzia relativa alla custodia di un animale prescinde dalla nozione di appartenenza, di talché risulta irrilevante il dato della registrazione del cane all’anagrafe canina ovvero dalla apposizione di un micro chip di identificazione, atteso che l’obbligo di custodia sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l’animale e una data persona» in quanto la norma incriminatrice «collega il dovere di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al suo possesso, da intendere come detenzione anche solo materiale e di fatto, non essendo necessaria un rapporto di proprietà in senso civilistico» (cfr. Cassazione, Sez. IV Penale, Sent. 14189/2021).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 07A21 del 14/05/2021

Detenuto in regime differenziato

Non è consentito al detenuto in regime differenziato utilizzare la posta elettronica per corrispondere col proprio difensore. Il caso oggi proposto riguarda le doglianze di un detenuto rispetto al diniego da parte dell’Amministrazione penitenziaria alla sua richiesta di essere autorizzato all’uso della posta elettronica per interagire con il difensore «fondato sulla mancata previsione di tale possibilità da parte della circolare applicabile ai soggetti sottoposti al regime differenziato», ex art. 41-bis Ordinamento penitenziario. Infatti, prima il Magistrato di sorveglianza, poi il Tribunale di sorveglianza adito, rigettavano i rispettivi reclami proposti dal soggetto interessato in quanto «la possibilità di comunicare con il difensore a mezzo della posta elettronica non poteva configurarsi come un diritto e non potendo la scelta dell’Amministrazione ritenersi ingiustificata o irragionevole rispetto alla disciplina dettata per i detenuti comuni, sottoposti a un regime differente».

Ebbene, proposto ricorso per cassazione, nel quale sostanzialmente si adducono motivazioni riconducibili al negato diritto di difesa nonché alla disparità di trattamento tra i detenuti cosiddetti comuni e quelli ristretti in regime differenziato, come nel caso in esame, i giudici di legittimità chiosano che non può «configurarsi alcuna violazione di norme primarie o secondarie, nemmeno sotto il profilo di una ipotetica disparità di trattamento riservata ai detenuti sottoposti al regime detentivo ordinario», poiché, prescindendo che la possibilità per i detenuti comuni di fare ricorso a tale strumento è stata solo prospettata nel ricorso senza che sia stata indicata la fonte normativa e la circostanza fattuale, va in ogni caso osservato che il riconoscimento di tale facoltà sarebbe riconducibile ad una mera opportunità offerta dall'Amministrazione penitenziaria a beneficio dei detenuti assoggettati al regime ordinario, peraltro soltanto in alcuni istituti di pena, per mezzo di una «non meglio specificata attività di talune cooperative sociali, ovviamente non suscettibili di alcun coinvolgimento in caso di detenuti ristretti in regime di art.  41-bis Ord. penit., rispetto ai quali sono massime le esigenze di controllo al fine di evitare pericolosi contatti con l’ambiente esterno». Ne consegue la infondatezza della prospettata lesione alle facoltà difensive del ricorrente (cfr. Cassazione penale, Sez. I, Sent. 17084/2021).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 07E21 del 14/05/2021

Social network e sostituzione di persona

Un fenomeno, quello dei social network e sostituzione di persona, presente sin dall’inizio della loro comparsa. Nel 2017 produssi un contributo dal titolo “I social network: tra comunicazione, interazione sociale e i limiti di manifestazione del proprio pensiero”, pubblicato in, “La reputazione in bilico. Rete e collasso dei contesti”, Morlacchi, Perugia (ISBN 9788860749215), nel quale anche se l’oggetto principale riguardava, appunto, i limiti della libera manifestazione del pensiero, e non specificamente i social network e sostituzione di persona, tuttavia, col caso oggi qui in esame delle analogie ve ne sono, se non altro sull’uso improprio di tali sistemi di comunicazione ed interazione sociale. Sicché, un soggetto veniva condannato alla pena di giustizia per aver creato un profilo social utilizzando l’immagine di altra persona (reato di sostituzione di persona e illecito trattamento di dati personali), all’insaputa di quest’ultima e dunque senza il suo consenso.

Ebbene, tralasciando le argomentazioni difensive, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui «la descrizione di un profilo poco lusinghiero sul social network evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell’agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata l’immagine», con la innegabile conseguenza che gli utilizzatori del servizio sono «tratti in inganno sulla disponibilità della persona associata all’immagine». Ed inoltre, a proposito del reato di illecito trattamento dei dati personali, lo stesso è «integrato dall’ostensione di dati personali del loro titolare ai frequentatori di un social network attraverso l’inserimento degli stessi, previa creazione di un falso profilo, sul relativo sito (…), posto che il nocumento che ne deriva al titolare medesimo s’identifica in un qualsiasi pregiudizio giuridicamente rilevante di natura patrimoniale o non patrimoniale subito dal soggetto cui si riferiscono i dati protetti oppure da terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento».

V’è di più, allorché il profilo social della «persona offesa, in cui l’immagine stessa era postata, non può, infatti, qualificarsi come un luogo virtuale pubblico, in quanto protetto da particolari misure atte a non consentirne l’accesso se non a persone previamente selezionate dal titolare del profilo stesso» (cfr. Corte di Cassazione, Sez. V Penale, Sentenza 12062/21). Infine, aggiungo, per i più ostinati a comprendere la gravità sull’uso improprio in generale dei social, ed in particolare dei social network e sostituzione di persona, che le «doglianze in punto di condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di merito di primo e di secondo grado non tengono conto del principio secondo cui l’esercizio dell’azione civile nel processo penale realizza un rapporto processuale avente per oggetto una domanda privatistica, con la conseguenza che il regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza» (ibid).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 05A21 del 07/04/2021

Il reato di estorsione

Se e quando punire il reato di estorsione, previsto dall’articolo 629 del Codice penale, presuppone che il soggetto agente «mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno». Cosicché, oggi propongo un caso a dir poco curioso quanto significativo dei tempi che cambiano. Infatti, circa fino al secolo scorso, se qualcuno si fosse recato in chiesa e (solo) avesse tentato di disturbare la funzione, o altro di simile, con due ceffoni e un calcio da terga ad opera del parroco se la sarebbe cavata, e tanto era sufficiente per dissuaderlo dal reiterare il gesto. Anzi, tale reazione del sacerdote fungeva anche da deterrente affinché nessun altro pensasse di imitare tale sconsiderata azione di disturbo. Ma, come accennato, il tempo passa e i costumi mutano, sicché si arriva ai giorni nostri, quando un soggetto sulla quarantina ha pensato di mettere in piedi un piano per fare soldi in maniera, a suo modo di vedere, abbastanza facile. Vale a dire, costringendo, con condotta perdurante, il parroco della parrocchia del quartiere a versargli delle somme di denaro disturbando ripetutamente la celebrazione delle funzioni sacre con schiamazzi ed urla e minacciando lo stesso sacerdote di non «cessare l’azione di disturbo prima del pagamento delle somme medesime». E da qui si concretizza l’esigenza di punire il reato di estorsione.

Ebbene, tralasciano in questa sede le vane argomentazioni difensive, «quanto alla sussistenza degli elementi strutturali del delitto di estorsione, deve rilevarsi come risulti pacifico nel caso di specie che vi sia stata la coartazione del soggetto passivo che - in quanto ministro di culto - era messo nella sostanziale impossibilità di svolgere la sua funzione dalle (interessate) attività di disturbo del (omissis) che - ben conoscendo la presenza di simili condotte perpetrate anche da parte di altro coimputato - aveva avuto facile gioco nell’ottenere un corrispettivo per la cessazione delle proprie gridate esibizioni». Ed in tali termini, è del tutto infondata la prospettazione di alcun travisamento della prova posto che la Corte territoriale risulta avere correttamente contestualizzato e descritto le condotte in conformità delle dichiarazioni in atti; nonché, quanto sopra, esclude anche la possibilità di qualsivoglia diversa qualificazione dei fatti in molestie e disturbo perché vi è una «finalizzazione patrimoniale del tutto estranea al reato di molestie», ma «coessenziale al delitto di estorsione». All’esito, segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in 3000,00 Euro. Ecco, come e quando punire il reato di estorsione (cfr. Corte di Cassazione, Sez. II Penale, Sentenza 11949/21).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 04A21 del 01/04/2021

Gli operatori dell’occulto

Tanto per intenderci, non tutti gli operatori dell’occulto sono sullo stesso piano, non a caso, qualche tempo fa pubblicai un contributo nel quale davo atto di una emblematica pronuncia della giustizia amministrativa, qui consultabile, in favore, appunto, della lecita attività del cartomante nella misura in cui la prestazione cartomantica sia resa nella sua reale essenza. Viceversa, oggi propongo l’esatto opposto, ovvero il caso di chi non ha nulla a che vedere con la vera cartomanzia e che oltre a sfruttare le debolezze psicologiche altrui per trarne un illecito profitto, mette in discussione il lavoro di tutti gli operatori dell’occulto.

Ebbene, un soggetto è stato condannato per due truffe aggravate ai danni di una donna verso la quale aveva incrementato la convinzione di avere il malocchio, prospettando in lei pericoli e negatività superabili solo attraverso le sue “arti magiche”, inducendo così questa persona ad effettuare una serie di pagamenti in suo favore al punto che, in seguito, convinse la stessa che a causa della gravità della situazione si rendeva necessario l’intervento di un secondo professionista, “specializzato in fatture pesanti”, con ulteriore ingente esborso di danaro.

Lasciando qui da parte le vane argomentazioni difensive, va ricordato che secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, «integra il reato di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici, da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime». Come si può intuire, non si tratta quindi di un richiamo generico per tutti gli operatori dell’occulto, ma per quanti di loro esercitino l’attività ingenerando la «convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti» sulle persone loro clienti.

Sicché, nel caso in esame, la condotta, attribuita all’imputato integra inequivocabilmente gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di truffa, a nulla rilevando che le pratiche esoteriche siano state o meno effettivamente eseguite, posto che l’inganno è consistito nello sfruttare la credulità di altri in «ordine alla incidenza delle pratiche sulle vicende umane». Infatti, non solo l’imputato ha incrementato nella donna la convinzione di avere il malocchio facendole credere di averlo verificato grazie alle proprie capacità e competenze nell’occulto, ma le ha anche prospettato la «necessità del completamento del rito propiziatorio, con ciò infondendo in lei il timore di un pericolo immaginario per sé e i familiari, se non avesse corrisposto denaro e non fossero stati completati i riti» (cfr. Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza n. 10609/21).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 02A21 del 28/03/2021

Salute e regime detentivo

Non sempre la richiesta avanzata dal detenuto e mirata ad ottenere la detenzione domiciliare ha esito favorevole seppur di fronte ad una condizione di salute compromessa. Per esempio, nel caso in esame, la condizione di salute di un detenuto affetto da importante patologia oftalmica è stata dichiarata gestibile nell’ambito intramurario previa idonea allocazione presso un istituto dotato di opportuni presidi terapeutici. Ripercorrendo le ragioni del ricorso del condannato, il medesimo, nell’unico motivo addotto, dopo aver richiamato la complessità del suo stato clinico, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione adottata dal Tribunale di sorveglianza, ha contestato la valutazione di compatibilità con lo stato detentivo meramente astratta sentenziata dall’organo collegiale senza che questo abbia tenuto in debito conto la già accertata insufficienza della risposta terapeutica nell’istituto penitenziario ove ristretto, nonché senza che il collegio abbia proceduto al necessario bilanciamento tra i profili di indefettibilità dell’esecuzione e del principio di umanità della pena stessa.

Ebbene, richiamando corposa giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte ha invece ribadito il principio per cui ai fini del differimento facoltativo della pena detentiva o della detenzione domiciliare è «necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, dovendosi in proposito operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività». Sicché, l’ordinanza impugnata non solo non si è discostata dai principi appena richiamati, ma ha anche tenuto scrupolosamente conto del quadro sanitario ricostruito attraverso la disposizione di adeguata perizia medico legale che ne ha in qualche modo messo in luce l’assenza dei necessari presupposti di legge. Tant’è, non è emerso che tale stato di salute accertato contrasti con l’espiazione della pena detentiva o con il senso di umanità, entrambi costituzionalmente garantiti, poiché non sono state evidenziate malattie organiche tali da porre in pericolo la vita il detenuto o da «provocare conseguenze dannose scongiurabili solo mediante cure praticabili esclusivamente in ambito extramurario, né l’espiazione della pena appare offendere, per le eccessive sofferenze, la dignità umana, così da privare la pena di significato rieducativo» (Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, Sentenza n. 477/2021 - Presidente: IASILLO; Relatore: CENTOFANTI).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 02E21 del 15/02/2021

Sanzioni al detenuto

Il caso oggi trattato, in ripresa delle pubblicazioni per l’anno 2021, riguarda un detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario, avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza ha rigettato la richiesta di annullamento della sanzione disciplinare corrispondente a quindici giorni di esclusione dalle attività in comune irrogata dalla Direzione del carcere nel quale è ristretto. Per la precisione, la rilevanza del comportamento disciplinare sanzionato è consistita nell’aver scritto, in una lettera inviata al carcere dove prima era ristretto, che «all’atto della deportazione nel lager di omissis» non gli sarebbe stata consegnata una certa somma di denaro.

Proposto reclamo, il Tribunale di sorveglianza ha ribadito e spiegato, tra l’altro, che il comportamento tenuto dal detenuto trova qualificazione nella previsione di cui all’art. 77, n. 15, Decreto del Presidente Della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), che indica come condotta disciplinarmente rilevante il tipo di “atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell’istituto per ragioni del loro ufficio o per visita”.

Del medesimo avviso i giudici di legittimità ai quali si è rivolto l’interessato, affermando che «non può essere revocato in dubbio, senza che possa invocarsi il diritto alla manifestazione del pensiero, che la definizione del carcere di (omissis) come lager, ove si sarebbe ristretti per “deportazione”, implica giocoforza una offesa alla professionalità di quanti in quella struttura operano, perché il loro lavoro e il loro impegno viene automaticamente oltraggiato con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori» (Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, Sentenza n. 35516 del 11/12/2020, udienza del 14/10/2020 - Presidente: IASILLO; Relatore: SANTALUCIA).

Per precisazione, l’art. 41-bis dell’Ord. Penit. (Legge 26 luglio 1975, n. 354) stabilisce, tra l’altro, che “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del  Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati (…) per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”.

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 01E21 del 07/01/2021