Estratto dell’intervento del Cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) all’incontro sulla disoccupazione giovanile (Milano, 11 gennaio 1986), testo pubblicato integralmente su MicroMega n. 1/86, pp. 89-93: «Capisco che può apparire un po’ fuori luogo discorrere del rapporto qualitativo tra i giovani e il lavoro, cioè del significato soggettivamente investito dai giovani nell’esperienza di lavoro, quando questo manca o è confinato nella marginalità (...). Ma - dobbiamo chiederci, come educatori - come sanare questa schizofrenia, come ricomporre, nel vissuto giovanile, un armonico equilibrio, ove l’homo faber si coniughi con l’homo ludens nel segno di una sapienza intessuta di contemplazione e di lavoro? (...) Accenno solo (...) a tre condizioni. 1) Che si dia modo ai giovani di non tardare, dopo la debita formazione nel fare concreta esperienza di lavoro: non c’è terapia più efficace, per combattere l’immagine mitica del lavoro o, sul fronte opposto, il senso di oppressione e di angoscia che talora evoca nei giovani, che l’impatto concrete con un lavoro, con le prestazioni e le relazioni umane - gratificanti e non - che esso comporta. Quando la coscienza e la libertà del giovane in formazione fanno la concreta esperienza del valore ma, anche del limite, sviluppano quell’equilibrio che è indizio di maturità. L’esperienza insegna che il lavoro è scuola di vita, esercizio di responsabilità, ingresso nella comunità adulta. 2) In secondo luogo la diffusa domanda di una diversa e più alta qualità del lavoro deve stimolare l’invenzione sociale. Alla Chiesa che si incarica di dare voce ad alcune essenziali esigenze etiche e solidaristiche, si usa rimproverare una visione regressiva, incline a distribuire risorse stazionarie o calanti, anziché a stimolare la positiva produzione di ricchezza. Possiamo anche raccogliere l’obiezione. Solo vorremmo che, coerentemente, si conducesse a fondo e si estendesse il rilievo, sino a comprendere la sfida a mettere in valore le risorse intellettuali e pratiche dell’uomo cui spetta il compito di adeguare l’organizzazione economica e produttiva al grado di sviluppo della sua più esigente soggettività. 3) Terza condizione di un auspicabile rapporto maturo e sapienziale dei giovani con il lavoro è la sua assunzione in una pregnante prospettiva vocazionale. Il problema del senso soggettivamente assegnato al lavoro fatalmente rimanda al più complessivo e radicale problema del senso ultimo dell’esistenza. Educare i giovani a un atteggiamento equilibrato verso il lavoro significa educarli al senso della radicalità e della globalità con cui interrogarsi sul significato della propria vita. Certo, non si fissa un orientamento etico una volta per tutte, né si sceglie sempre con rigorosa e puntuale coerenza. Ma, pur tra debolezze e contraddizioni, una coscienza che progressivamente si costruisce dentro un orizzonte di vita consapevolmente e liberamente assunto sa conferire al lavoro la sua fisiologica rilevanza e sa illuminare la scelta del lavoro e le scelte nel lavoro».