Torno sul tema dei delitti contro l’onore considerato che, appunto, non è la prima volta che ne tratto attraverso le mie pubblicazioni. Un esempio lo è il reato di diffamazione aggravata, laddove un soggetto si rivolge a terza persona apostrofandola col termine omosessuale. Ebbene, premesso che nel nostro Paese la Corte Suprema di Cassazione è al “vertice della giurisdizione ordinaria” e che tra le principali funzioni che le sono attribuite vi è quella di assicurare “l’uniforme interpretazione della legge”, tuttavia non deve destare chissà quali perplessità se alle volte capita di osservare decisioni assunte dal medesimo consesso diametralmente opposte, anche se riferite al medesimo argomento giuridico, poiché ogni fato/reato ha una sua genesi ed evoluzione distinta e non sovrapponibile con altre vicende, seppur analoghe o apparentemente tali.
Per esempio, qualche anno fa, fu annullata la condanna inflitta ad una persona che aveva appellato un uomo come omosessuale, in quanto era «da escludere che il termine omosessuale utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto» (cfr. Cassazione, Sez. V Penale, Sent. 50659/16, cit. in contributo).
Tanto premesso, il caso oggi preso in esame ha riguardato la condanna inflitta ad un «transessuale esercente la prostituzione» il quale, attraverso il profilo social, quindi comunicando con più persone, aveva sostenuto l’omosessualità di un certo soggetto e di aver con lo stesso intrattenuto un rapporto sessuale, nonché lo «aveva apostrofato come frocio e schifoso». Sicché, disattesa ogni argomentazione difensiva, con la sentenza qui trattata, la cassazione si è soffermata sul principio di diritto secondo cui le suddette espressioni costituiscono «oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate – in ogni dove – dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono – per recare offesa alla persona – proprio ai termini utilizzati dall’imputato»; e che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca social integra un’ipotesi di diffamazione aggravata «poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone» (cfr. Cassazione, Sez. V Penale, Sent. 19359/21). Insomma, in tema dei delitti contro l’onore, specie in quest’ultimo caso, la Suprema Corte non ha ritenuto plausibile applicare il principio per cui è «da escludere che il termine omosessuale utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo».
Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 09A21 del 24/05/2021