Il presente contributo, non a caso intitolato i lati oscuri della fiducia, per quanto tratti un argomento che scaturisce da una questione prettamente di diritto, pone invece in risalto – a mio avviso se colti – aspetti sociali di rilevanza tutt’altro che secondaria, i quali, quindi, al di là del mero interesse giuridico, andrebbero giustappunto attenzionati secondo paradigmi psicosociali. Tali premesse inducono quindi a riflettere sul fatto che nonostante la presenza di innumerevoli meccanismi legati alla evoluzione tecnologica, i quali in qualche maniera riposano, o almeno dovrebbero riposare, su una fiducia sistemica, l’essere umano continua invece ad avere la necessità di ricorrere al classico principio di fiducia, ma, spesso a sua insaputa, senza tenere in seria considerazione proprio i lati oscuri della fiducia.
Sicché, attraverso la comprensione di questo complesso di elementi, sembra ragionevolmente possibile ritenere che i lati oscuri della fiducia trasmutino in quel concetto di fiducia cosiddetta attiva, alla base della quale sussiste il riconoscimento dei valori e della dignità propri di ciascun individuo e presenti ai vari livelli sociali.
Ebbene, tornando al caso giuridico oggi in esame, credo che i lati oscuri della fiducia abbiano fortemente influito non solo, evidentemente, sull’esito della causa, quanto sulle motivazioni recondite che l’hanno determinata. Di fatto, un’impiegata comunale impugnava la sentenza pronunciata in sede di appello la quale aveva dichiarato legittimo il licenziamento della stessa lavoratrice, accusata di avere effettuato accessi al protocollo informatico dell’ufficio in assenza di idonee ragioni, ovvero con l’interesse di conoscere documenti che non rientravano tra quelli di competenza del proprio settore di assegnazione.
Va comunque precisato che il primo grado di giudizio scagionava l’impiegata poiché «gli accessi non avevano recato danni all’amministrazione né aveva comportato la divulgazione di notizie che dovevano rimanere riservate». Tesi respinta nei gradi successivi, in quanto, in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, va proprio accertato «se i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario», e dunque se «le ragioni per le quali la condotta della lavoratrice, tenuta in violazione dei doveri propri del dipendente pubblico, era da ritenere di gravità tale da giustificare il recesso» (Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sent. 3819/2021).
Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 15A21 del 09/12/2021