Opere abusive

Dal punto di vista della tassatività dell’impianto normativo, anche una modesta "casetta" per bambini, realizzata in legno e posta su di un albero, presuppone l’ottenimento del titolo amministrativo che ne autorizzi l’installazione. Infatti, si legge nel provvedimento giurisdizionale qui in esame, con richiamo all’assunto del procedimento di vigilanza edilizia, se da un lato il manufatto in questione non è riconducibile all’edilizia libera, né all’ipotesi dell’attrezzatura ludica, dall’altro lato si precisa che sono considerate nuove costruzioni «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee».

Rilevando, ad abundantiam, che per stessa ammissione del ricorrente l’opera realizzata è stata posta in essere «senza l’ausilio di nessun tipo di fondazione se non quella del tronco della palma, il cui ancoraggio al suolo non è sicuro, specie nel caso in esame trattandosi di una pianta morta e quindi soggetta all’inevitabile deperimento del suo apparato radicale, circostanza che rende il manufatto, oltre che abusivo, anche pericoloso sotto il profilo statico per i suoi fruitori», vale dire prevalentemente dei bambini (TAR Liguria, Sent. 507/2023).


Libertà vigilata e risocializzazione

Quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale, la libertà vigilata è da considerare una misura alternativa alla detenzione, ed in quanto tale concorre alla risocializzazione del reo. Su questi presupposti, la libertà vigilata non è né una misura di sicurezza, né una sanzione aggiuntiva, bensì è la prosecuzione, evidentemente in forma meno afflittiva, della pena già irrogata in origine. Infatti, la liberazione condizionale e la libertà vigilata costituiscono, unitamente considerate, una vera e propria misura alternativa alla detenzione.

La libertà vigilata è dunque una sorta di prova in regime di libertà, finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società, ciò anche in considerazione del fatto che la stessa ammissione alla liberazione condizionale anticipa in qualche modo la definitiva estinzione della pena una volta che ne siano decorsi i tempi della sua durata.

Nel caso del condannato all’ergastolo, il cui accesso alla libertà condizionale è consentito solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata fissa e prestabilita, misura accompagnata da prescrizioni ed obblighi definiti dalla magistratura di sorveglianza sul presupposto del caso concreto e del principio costituzionalmente orientato di rieducazione e risocializzazione.

Sicché, se oramai è pacifico che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, allora ciò comporta che tale concetto «non si applica alle sole pene in senso stretto», ma «che, anzi, il principio da esso espresso si irradia su ogni aspetto e momento del percorso trattamentale», e che «proprio le ragioni qui particolarmente sottolineate indicano che il regime in questione può e deve essere rivolto nella direzione della finalità espressa dalla disposizione costituzionale ora in questione».

Del resto, se da un lato è vero che «con l’introduzione del sistema dei benefici penitenziari si può ora valutare progressivamente, ben prima dell’accesso alla liberazione condizionale, il grado di adesione del condannato al percorso rieducativo propostogli», dall’altro lato, è «altrettanto vero che la liberazione condizionale resta, tra le modalità alternative alla detenzione in carcere, quella che dischiude i maggiori spazi di libertà per il condannato, spazi che, da una parte, consentono il più completo reinserimento nel consorzio civile e giustificano, dall’altra, anche in ragione della possibile estinzione della pena, gli opportuni controlli».

Con ciò, la Consulta ha dichiarato «non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze» (Sent. 66/2023).