Calamandrei e la Costituzione

Con il contributo odierno, torno su alcuni passaggi dei discorsi di Piero Calamandrei (1889-1956), senz’altro datati, quanto attuali, come se il tempo non fosse mai trascorso dagli anni della neonata Repubblica. Come a dire, aggiungo, rileggere il passato per capire il presente, ovvero tentare di comprendere perché molti degli attuali problemi sono ancora (probabilmente intenzionalmente) senza soluzione. Correva l’anno 1947, addì 4 del mese di marzo, quando nella seduta pomeridiana dell’assemblea costituente, rivolto ai colleghi, Calamandrei fece un parallelo con gli allora giornalai che gridavano per le strade: “Terza edizione! La grande vittoria degli italiani (...) ma poi aggiungeva, in tono più basso (...) non è vero nulla”. Ecco, proseguì l’illustre giurista: “bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi (…) Non è vero nulla”. Attuale, sempre dal mio punto di vista, così come altrettanto emblematico, prosegue Calamandrei: “Ora io devo prima di  tutto riconoscere (...) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni (...). Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella Costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo (...), ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro? (...). Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio (...). Io mi domando (...) come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente (...) se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì (...), credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia (...) e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della  nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti (...). Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità (...). Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. Concludo questo mio breve contributo con il (ri)suggerire ai giovani studiosi due classici di Calamandrei: Non c’è libertà senza legalità (ed. 2013), Roma, Laterza; Lo Stato siamo noi (ed. 2011), Milano, Chiarelettere.