Riprendendo un mio precedente contributo di circa un decennio fa, sul punto non può negarsi che l’invidia esiste come sentimento negativo sin dalla comparsa dell’uomo, per cui, si legge nei testi, si manifestò per mano del demonio come in Adamo ed Eva, in Caino e Abele, in Esaù e Giacobbe, in Davide e Saul, in Giuseppe e suoi fratelli; per ultimo, ma non certo da ultimo, Gesù, crocifisso sotto Ponzio Pilato, “reo” di aver predicato il bene. Si legge, per esempio, che «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 2,24). Oppure che «l’invidia per il bene accordato a un altro costituisce dunque un’insidia contro la fraternità. Dando voce a Dio stesso, il testo biblico ne fa emergere il pericolo, paragonato a un animale accovacciato alla porta, che, pur minaccioso, può però essere domato» (Gen 4,7). Inoltre: «è l’invidia a essere il segreto motore delle azioni disoneste, per cui il secondo prende il posto del primo, sostituendosi a lui, carpendo con l’inganno ciò che era riservato all’altro» (Gen 27,1-29). Senza tralasciare che l’invidia è annoverata tra i sette vizi capitali, o peccati capitali, cosiddetti in quanto generano altri vizi ed altri peccati. Ebbene, al di là delle suesposte esemplificazioni e delle relative interpretazioni, anche temporali, dal punto di vista più psicosocial-cognitivo, l’invidia è in genere definita come un sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità presente in altre persone, che invece si vorrebbero per sé, sentimento assai spesso accompagnato da avversione e livore verso chi, quindi, possiede detto bene e/o qualità tali da realizzare le proprie aspettative in ambito familiare, lavorativo e sociale più in generale. Sicché, se per Marx la passione dominante della società moderna è l’avidità, per Durkheim è l’ambizione non regolata, viceversa, per Tocqueville è invece l’invidia (Martinelli, 2009). Perciò, l’invidia, sensu lato, è rappresentata da quel sentimento occulto che dove presente nei soggetti “portatori” è come se fosse un qualcosa rientrante tra i loro stessi bisogni primari che si ha necessita assoluta da soddisfare. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se è poi così frequente “ritrovarla” nella vita di relazione di tutti i giorni, capace di deteriorare i rapporti interpersonali e sociali più in generale. Non è un caso, pertanto, che l’invidioso prova disagio e senso di infelicità quando gli altri riescono dove lui fallisce, provocando in se stesso forme di aggressività, odio e livore (Alberoni, 2009). Per concludere, brevemente, credo che l’invidioso, specie se patologico – una volta individuato e fatto lui comprendere di aver percepito il suo status negativo –, vada ignorato, poiché ogni nuovo contatto o vicinanza altro non aumenta il livore verso chi l’invidioso stesso ritiene essere migliore di se (perché migliore lo è realmente).