Codice della vita italiana

Estratto dalla nota introduttiva del testo dal titolo “Codice della vita italiana”, G. Prezzolini (1921). «Tra la legge scritta e la vita vissuta, tutti sappiamo che bella differenza passa. Lo Statuto e i Codici che cosa ci dicono di realistico sul nostro Paese? Lo abbiamo imparato, a spese nostre; lo sa la nostra testa, che ha ripetutamente urtato contro quanto ignorava; lo sanno le nostre spalle, che di questa ignoranza han portato il peso! E perché non cerchiamo di togliere ai giovani la parte più grave di tal noviziato? Perché non proviamo a insegnare loro in che Paese veramente sono nati, quali ostacoli troveranno, quante strade hanno aperte? Ho cercato di esporre in poche formule alcuni degli aspetti realistici della nostra vita e delle consuetudini della gran maggioranza degli Italiani. So bene che si griderà in pubblico al diffamatore, pur riconoscendo in privato la giustezza delle mie osservazioni. Ma, appunto perché so tutto questo, non me ne preoccupo tanto. E quanto alle eccezioni riconosco volentieri che ce ne sono. Non è già forse questo scritto stesso un’eccezione a quella regola, che si potrebbe benissimo aggiungere alle altre innanzi esposte, per cui “certe cose si fanno ma non si dicono”? C’è molta amarezza, in espressioni che han l’aria - soltanto l’aria, pur troppo – del paradosso. Amarezza e, qualche volta, disperazione. Quando si vive in Italia, più d’una volta accade di domandarsi perché non si prende il primo piroscafo che parte per il nuovo mondo, dove, molto lontani, attraverso il velo della poesia, e senza alcun contatto con i cattivi campioni della madre patria, tutto quello che c’è di bello e di sano può tornare in mente e destare persin nostalgia. Si, siamo ridotti a questo, qualche volta: a rendere idealmente un piroscafo e guardarla da lontano, questa nostra Italia, per poterla amare davvero A guardarla come posteri; anzi peggio: come stranieri. Io ho fede nell’Italia piuttosto attraverso un rinnovamento educativo che attraverso uno politico, preferisco un miglioramento del carattere a una modificazione delle istituzioni. Ho più fede negli umili, che nei grandi; in coloro che occupano posizioni secondarie, che in quelli che sono arrivati in alto. Penso che i valori della nostra tradizione hanno bisogno di cambiamenti radicali. Il mio ideale d’Italiani è quello di uomini più pratici, più severi, più colti, più aperti alla visione del grande mondo moderno. Sento che si potrebbe arrivare ad un profondo rivolgimento spirituale in breve tempo: in un paio di generazioni; a patto di sentire la nostra attuale complessiva inferiorità, rispetto ad altri popoli; a patto di una rinunzia rigida a consuetudini che abbassano soprattutto il nostro valore morale e la nostra dignità; a patto di un esame di coscienza purificatore. Certamente non è facile dire a noi stessi ed in pubblico: ho peccato; ma non vi è correzione possibile se non a traverso questa confessione».

Situazione carceri

Il Centro di ricerca “Diritto penitenziario e Costituzione - European Penological Center” di Roma Tre ha ospitato l’incontro sulle attuali condizioni delle carceri italiane, promosso da Radio Carcere con Associazione Nazionale Magistrati, Unione Camere Penali Italiane e Radio Radicale. Roma 23.04.2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza Università degli Studi Roma Tre.

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Presentazione del Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Evento organizzato da Associazione Antigone. Roma 22.04.2024, presso la sede dell’Associazione Stampa Romana.

Gli squilibri italiani

Estratto da “Gli squilibri amministrativi italiani e le loro cause. Qualche rimedio”, Sabino Cassese, in, MicroMega 2/86, pp. 184-185: «Per porre rimedio al groviglio di problemi occorrerebbe riscrivere la storia d’Italia (senza esser neppure sicuri di saperla riscrivere meglio) e poter modificare la società per decreto (ciò che non è né possibile, né auspicabile). Accontentiamoci di qualche indicazione utile a correggere gli effetti  disfunzionali maggiori. In primo luogo, l’intervento dei giudici nella vita amministrativa e le distorsioni che ne derivano dipendono dalla circostanza che le amministrazioni pubbliche hanno abbassato la guardia e abbandonato il buon uso antico degli uffici ispettivi. La conseguenza è nota anche nella vita quotidiana degli uffici, dove non si e pagati per lavorare, ma per aver vinto un concorso, essendo il lavoro rimesso alla buona volontà di ciascuno. Tutto ciò non è più tollerabile e richiede uffici di supervisione e verifica, anche se non alla vecchia maniera, ma di esame dei carichi di lavoro, della loro distribuzione tra uffici e impiegati, dei costi, dei rendimenti. Una amministrazione che si controlla e corregge da se non avrà più bisogno di interventi giudiziali, salvo i casi maggiori e di vera rilevanza penale. Il secondo gruppo di squilibri è troppo legato a fattori storici e sociali perché si possa porre rimedio ad essi. Anche in questo caso, si può, però, tentare di correggere i maggiori effetti negativi. Occorre organizzare la convivenza di tanti poteri pubblici, in continuo rapporto tra di loro, talora in conflitto, talora legati da patti non chiari. L’idea che abbiamo ricevuto è quella che un ufficio non deve intromettersi in altri, né duplicarli, perché la duplicazione e i conflitti sono costosi. Come nella costruzione antropomorfica dello Stato, si è ritenuto che la razionalità sia la stessa a livello individuale e a quello dell’organizzazione. Si è applicata la metafora della macchina alle amministrazioni: frizione e conflitto producono inefficienza; quindi, riducendo i conflitti con la riduzione di competenze che si sovrappongano, si aumenta l’efficienza. L’ideale monopolistico, applicato alle amministrazioni, è, in realtà, una eccezione. I sistemi politici sono basati sul principio della concorrenza. Vale – come si vede – il caveat iniziale: le vicende dell’amministrazione si intersecano frequentemente con quelle della società, i problemi di questa aggravano quelli della prima».

II sentimento di mafia

Tratto da “Che cosa è la mafia” (1900), Gaetano Mosca (1858-1941). Per il noto giurista e politologo italiano, il sentimento di mafia, o spirito di mafia, «consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti ricevuti. Sicché mentre generalmente è ammesso, anche da coloro che agiscono secondo le norme dello spirito di mafia, che il furto semplice, la truffa, lo scrocco ed in genere tutti i reati nei quali l’autore si aiuta esclusivamente coll’astuzia e l’inganno e non presume di esercitare una violenza e di avere forza e coraggio maggiore della vittima, si possono denunziare alla giustizia, ciò invece sarebbe interdetto da un falso sentimento di onore, o di dignità personale, quando il reato riveste il carattere di una imposizione aperta e sfacciata, di un torto, che il reo intende di fare specificatamente ad un dato individuo, al quale vuole far sentire la propria superiorità e col quale non cura di stare in buoni rapporti perché non ne teme l’inimicizia ed il rancore. Le offese all’onore delle famiglie, le percosse, le violenze personali, l’omicidio in rissa o per agguato sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è ritenuta dai mafiosi cosa sconveniente e vile, che porta con sé una specie di squalificazione cavalleresca. È per questa ragione che gli Italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo il forestiero in generale rapporti con la classe delinquente, è difficile che contro di lui possa addursi il pretesto di una vendetta personale. È per la stessa ragione che gli stessi Siciliani che abitano nelle grandi città dell’isola raramente sono vittime di reati premeditati; giacché nelle grandi città ognuno può scegliere liberamente le persone colle quali vuole stabilire qualunque genere di rapporti ed i rancori personali più difficilmente si accendono e non trovano alimento nei contatti e negli attriti quotidiani come avviene nei piccoli centri».