Gli squilibri italiani

Estratto da “Gli squilibri amministrativi italiani e le loro cause. Qualche rimedio”, Sabino Cassese, in, MicroMega 2/86, pp. 184-185: «Per porre rimedio al groviglio di problemi occorrerebbe riscrivere la storia d’Italia (senza esser neppure sicuri di saperla riscrivere meglio) e poter modificare la società per decreto (ciò che non è né possibile, né auspicabile). Accontentiamoci di qualche indicazione utile a correggere gli effetti  disfunzionali maggiori. In primo luogo, l’intervento dei giudici nella vita amministrativa e le distorsioni che ne derivano dipendono dalla circostanza che le amministrazioni pubbliche hanno abbassato la guardia e abbandonato il buon uso antico degli uffici ispettivi. La conseguenza è nota anche nella vita quotidiana degli uffici, dove non si e pagati per lavorare, ma per aver vinto un concorso, essendo il lavoro rimesso alla buona volontà di ciascuno. Tutto ciò non è più tollerabile e richiede uffici di supervisione e verifica, anche se non alla vecchia maniera, ma di esame dei carichi di lavoro, della loro distribuzione tra uffici e impiegati, dei costi, dei rendimenti. Una amministrazione che si controlla e corregge da se non avrà più bisogno di interventi giudiziali, salvo i casi maggiori e di vera rilevanza penale. Il secondo gruppo di squilibri è troppo legato a fattori storici e sociali perché si possa porre rimedio ad essi. Anche in questo caso, si può, però, tentare di correggere i maggiori effetti negativi. Occorre organizzare la convivenza di tanti poteri pubblici, in continuo rapporto tra di loro, talora in conflitto, talora legati da patti non chiari. L’idea che abbiamo ricevuto è quella che un ufficio non deve intromettersi in altri, né duplicarli, perché la duplicazione e i conflitti sono costosi. Come nella costruzione antropomorfica dello Stato, si è ritenuto che la razionalità sia la stessa a livello individuale e a quello dell’organizzazione. Si è applicata la metafora della macchina alle amministrazioni: frizione e conflitto producono inefficienza; quindi, riducendo i conflitti con la riduzione di competenze che si sovrappongano, si aumenta l’efficienza. L’ideale monopolistico, applicato alle amministrazioni, è, in realtà, una eccezione. I sistemi politici sono basati sul principio della concorrenza. Vale – come si vede – il caveat iniziale: le vicende dell’amministrazione si intersecano frequentemente con quelle della società, i problemi di questa aggravano quelli della prima».