In materia di tutela della personalità morale del lavoratore, nella qualificazione tra mobbing e straining ciò che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, riconduca alla «violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento», vale a dire: integrità psicofisica, dignità, identità personale, partecipazione alla vita sociale e politica.
Sicché, «la reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza».
Di fatto, siccome lo straining è «una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni», se viene accertato, la «domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta», perciò: il giudice «nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa petendi» (Cass. Sez. Lav. Ord. 29101/2023).