Calamandrei e la Costituzione

Con il contributo odierno, torno su alcuni passaggi dei discorsi di Piero Calamandrei (1889-1956), senz’altro datati, quanto attuali, come se il tempo non fosse mai trascorso dagli anni della neonata Repubblica. Come a dire, aggiungo, rileggere il passato per capire il presente, ovvero tentare di comprendere perché molti degli attuali problemi sono ancora (probabilmente intenzionalmente) senza soluzione. Correva l’anno 1947, addì 4 del mese di marzo, quando nella seduta pomeridiana dell’assemblea costituente, rivolto ai colleghi, Calamandrei fece un parallelo con gli allora giornalai che gridavano per le strade: “Terza edizione! La grande vittoria degli italiani (...) ma poi aggiungeva, in tono più basso (...) non è vero nulla”. Ecco, proseguì l’illustre giurista: “bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi (…) Non è vero nulla”. Attuale, sempre dal mio punto di vista, così come altrettanto emblematico, prosegue Calamandrei: “Ora io devo prima di  tutto riconoscere (...) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni (...). Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella Costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo (...), ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro? (...). Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio (...). Io mi domando (...) come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente (...) se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì (...), credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia (...) e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della  nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti (...). Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità (...). Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. Concludo questo mio breve contributo con il (ri)suggerire ai giovani studiosi due classici di Calamandrei: Non c’è libertà senza legalità (ed. 2013), Roma, Laterza; Lo Stato siamo noi (ed. 2011), Milano, Chiarelettere.

Sulla invidia patologica

Riprendendo un mio precedente contributo di circa un decennio fa, sul punto non può negarsi che l’invidia esiste come sentimento negativo sin dalla comparsa dell’uomo, per cui, si legge nei testi, si manifestò per mano del demonio come in Adamo ed Eva, in Caino e Abele, in Esaù e Giacobbe, in Davide e Saul, in Giuseppe e suoi fratelli; per ultimo, ma non certo da ultimo, Gesù, crocifisso sotto Ponzio Pilato, “reo” di aver predicato il bene. Si legge, per esempio, che «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 2,24). Oppure che «l’invidia per il bene accordato a un altro costituisce dunque un’insidia contro la fraternità. Dando voce a Dio stesso, il testo biblico ne fa emergere il pericolo, paragonato a un animale accovacciato alla porta, che, pur minaccioso, può però essere domato» (Gen 4,7). Inoltre: «è l’invidia a essere il segreto motore delle azioni disoneste, per cui il secondo prende il posto del primo, sostituendosi a lui, carpendo con l’inganno ciò che era riservato all’altro» (Gen 27,1-29). Senza tralasciare che l’invidia è annoverata tra i sette vizi capitali, o peccati capitali, cosiddetti in quanto generano altri vizi ed altri peccati. Ebbene, al di là delle suesposte esemplificazioni e delle relative interpretazioni, anche temporali, dal punto di vista più psicosocial-cognitivo, l’invidia è in genere definita come un sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità presente in altre persone, che invece si vorrebbero per sé, sentimento assai spesso accompagnato da avversione e livore verso chi, quindi, possiede detto bene e/o qualità tali da realizzare le proprie aspettative in ambito familiare, lavorativo e sociale più in generale. Sicché, se per Marx la passione dominante della società moderna è l’avidità, per Durkheim è l’ambizione non regolata, viceversa, per Tocqueville è invece l’invidia (Martinelli, 2009). Perciò, l’invidia, sensu lato, è rappresentata da quel sentimento occulto che dove presente nei soggetti “portatori” è come se fosse un qualcosa rientrante tra i loro stessi bisogni primari che si ha necessita assoluta da soddisfare. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se è poi così frequente “ritrovarla” nella vita di relazione di tutti i giorni, capace di deteriorare i rapporti interpersonali e sociali più in generale. Non è un caso, pertanto, che l’invidioso prova disagio e senso di infelicità quando gli altri riescono dove lui fallisce, provocando in se stesso forme di aggressività, odio e livore (Alberoni, 2009). Per concludere, brevemente, credo che l’invidioso, specie se patologico – una volta individuato e fatto lui comprendere di aver percepito il suo status negativo –, vada ignorato, poiché ogni nuovo contatto o vicinanza altro non aumenta il livore verso chi l’invidioso stesso ritiene essere migliore di se (perché migliore lo è realmente).

Memorie di un Segretario

Presentazione del libro dal titolo: “Presidente di tutti. Giorgio Napolitano nelle memorie di un Segretario del Quirinale”, di Giovanni Matteoli. Evento del 23 settembre 2024 registrato da Radio Radicale nell’ambito del “Master in Istituzioni parlamentari” presso Sapienza Università di Roma. Scrive l’autore: «Il presidente tenne sempre fede al compito di svolgere un ruolo di mediazione e di garanzia, del tutto coerente con la sua diffidenza per le contrapposizioni esasperate, le estremizzazioni e le faziosità». Secondo me, il libro va letto al di là del legittimo orientamento politico di ognuno.

L’ambivalenza del potere

Franco Crespi (1930-2022), estratto da MicroMega 4/86, pp. 143-169: «Un tentativo di approccio fenomenologico ai molteplici e contraddittori elementi del potere. Solo chiedendoci che cosa esso sia possiamo comprendere come esso operi. La sua funzione e ineliminabile nel contesto sociale, tanto quanto lo e la disuguaglianza. È in questa prospettiva che si deve porre il problema dell’emancipazione». Coscienza e mediazione simbolica. «Per comprendere il significato che il potere assume all’interno della situazione esistenziale occorre tener presenti anzitutto le due dimensioni costitutive di quest’ultima: la riflessività o autocoscienza e l’esigenza di mediazioni simboliche. È noto che la tradizione razionalistica e scientistica del secolo scorso ha tentato di eliminare per quanto possibile la soggettività dal campo scientifico, cercando di studiare il comportamento umano in termini meccanicistici o di calcolo utilitaristico. Tuttavia, lo stesso sviluppo dell’epistemologia contemporanea della scienza, riconoscendo il carattere convenzionale e intersoggettivo dell’oggettività scientifica, ha finito con il restituire una funzione centrale alla dimensione soggettiva e al problema dell’intenzionalità e del senso. Quando oggi i filosofi parlano della fine del soggetto essi si  riferiscono in realtà, anche se non sempre in modo pienamente consapevole e privo di equivoci, alla crisi del soggetto cartesiano, la cui coscienza era concepita come centro di idee chiare e distinte e di scelte volontarie. In contrapposizione alia concezione della metafisica razionalista, la critica nihilista di Nietzsche, da un lato, e il materialismo dialettico di Marx dall’altro, hanno, anche se in maniera diversa, insistito infatti sul carattere di prodotto della coscienza. In Nietzsche il soggetto appare come maschera, pura illusione fenomenica creata dal gioco delle relazioni simboliche (G. Vattimo, 1974), mentre è noto che in Marx la coscienza è vista come il riflesso di condizionamenti storico-sociali. Ma è soprattutto con Freud che la coscienza ha perso il carattere libero e trasparente che le attribuiva Descartes: essa appare al contrario come travestimento inconsapevole, tramite processi di razionalizzazione e rimozione, di pulsioni profonde dell’inconscio e come “campo di lotta fra tendenze contrapposte fra loro” (S. Freud, 1967-1979). In questa stessa direzione oggi la psicologia sociale e la filosofia analitica sono venute sempre più sottolineando la presenza nella mente umana di dissonanze cognitive, di meccanismi di autoinganno (self-deception) e di “falsa coscienza” (L. Festinger, 1973; H. Fingarette, 1969; P. Gardiner, 1969-1970; W. G. Runciman, 1970; A. Rorty, 1972; J. Elster, 1983)».

Il profitto viene dopo

Estratto dell’intervento del Cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) all’incontro sulla disoccupazione giovanile (Milano, 11 gennaio 1986), testo pubblicato integralmente su MicroMega n. 1/86, pp. 89-93: «Capisco che può apparire un po’ fuori luogo discorrere del rapporto qualitativo tra i giovani e il lavoro, cioè del significato soggettivamente investito dai giovani nell’esperienza di lavoro, quando questo manca o è confinato nella marginalità (...). Ma - dobbiamo chiederci, come educatori - come sanare questa schizofrenia, come ricomporre, nel vissuto giovanile, un armonico equilibrio, ove l’homo faber si coniughi  con l’homo ludens nel segno di una sapienza intessuta di contemplazione e di lavoro? (...) Accenno solo (...) a tre condizioni. 1) Che si dia modo ai giovani di non tardare, dopo la debita formazione nel fare concreta esperienza di lavoro: non c’è terapia più efficace, per combattere l’immagine mitica del lavoro o, sul fronte opposto, il senso di oppressione e di angoscia che talora evoca nei giovani, che l’impatto concrete con un lavoro, con le prestazioni e le relazioni umane - gratificanti  e non - che esso comporta. Quando la coscienza e la libertà del giovane in formazione fanno la concreta esperienza del valore ma, anche del limite, sviluppano quell’equilibrio che è indizio di maturità. L’esperienza insegna che il lavoro è scuola di vita, esercizio di responsabilità, ingresso nella comunità adulta. 2) In secondo luogo la diffusa domanda di una diversa e più alta qualità del lavoro deve stimolare l’invenzione sociale. Alla Chiesa che si incarica di dare voce ad alcune essenziali esigenze etiche e solidaristiche, si usa rimproverare una visione regressiva, incline a distribuire risorse stazionarie o calanti, anziché a stimolare la positiva produzione di ricchezza. Possiamo anche raccogliere l’obiezione. Solo vorremmo che, coerentemente, si conducesse a fondo e si estendesse il rilievo, sino a comprendere la sfida a mettere in valore le risorse intellettuali e pratiche dell’uomo cui spetta il compito di adeguare l’organizzazione economica e produttiva al grado di sviluppo della sua più esigente soggettività. 3) Terza condizione di un auspicabile rapporto maturo e sapienziale dei giovani con il lavoro è la sua assunzione in una pregnante prospettiva vocazionale. Il problema del senso soggettivamente assegnato al lavoro fatalmente rimanda al più complessivo e radicale problema del senso ultimo dell’esistenza. Educare i giovani a un atteggiamento equilibrato verso il lavoro significa educarli al senso della radicalità e della globalità con cui interrogarsi sul significato della propria vita. Certo, non si fissa un orientamento etico una volta per tutte, né si sceglie sempre con rigorosa e puntuale coerenza. Ma, pur tra debolezze e contraddizioni, una coscienza che progressivamente si costruisce dentro un orizzonte di vita consapevolmente e liberamente assunto sa conferire al lavoro la sua fisiologica rilevanza e sa illuminare la scelta del lavoro e le scelte nel lavoro».

Diritto alla conoscenza

Scrive l’autore nella prima parte del libro intitolato “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale” (Nicolò Zanon, 2024, Torino, Zanichelli): «A voler fare i giuristi sul serio, c’è da dire che non è nemmeno chiaro se esprimere e rendere nota una opinione dissenziente, rivelando così il proprio voto e i propri argomenti, sia davvero vietato». Ebbene, sul punto segnalo la registrazione video del dibatto dal titolo “Corte Costituzionale e diritto alla conoscenza”.

Dialogo sulle masse

Estratto da “Dialogo sulle masse e la paura della morte”, Elias Canetti / Theodor W. Adorno, in, MicroMega 2/86, pp. 193-194. Dal testo stenografico di una conversazione del 1962 fra i due autori che prende spunto da uno dei più noti testi di Canetti: Masse e Potere. – ADORNO – «Io so che spesso Lei si discosta molto da Freud e che è fortemente critico nei suoi confronti. Ma in una metodica Lei è certamente d’accordo con lui, e precisamente in questo: Freud ha spesso sottolineato di non avere assolutamente l’intenzione di contestare o di respingere i risultati di altre scienze consolidate, ma solamente di voler aggiungere qualcosa che in esse era stato trascurato. Io credo che Lei potrebbe spiegare questa cosa nel modo migliore con l’importanza centrale che il problema della morte assume nella Sua opera. Lei potrebbe farlo proprio con il complesso della morte anche per dare ai nostri ascoltatori un’idea, un modello, di cosa sia effettivamente questo “trascurato”. In tal modo si potrà vedere la fecondità del metodo e ci si accorgerà del fatto che qui vengono discusse non solo cose sulle quali altrimenti poco si riflette, ma anche che proprio la naturalezza con la quale questi momenti vengono accettati ha in se qualcosa di pericoloso». – CANETTI – «È assolutamente vero, credo, che la considerazione della morte svolga nella mia ricerca un ruolo importante. Se dovessi dare un esempio di ciò cui Lei accennava, allora sarebbe la questione della sopravvivenza, sulla quale secondo me troppo poco si è riflettuto. Il momento in cui un uomo sopravvive a un altro è un momento concreto e io credo che l’esperienza di questo momento abbia conseguenze molto importanti. Io credo che questa esperienza venga nascosta dalla convenzione, da ciò che si deve sentire quando si sperimenta la morte di un altro essere umano, ma che sotto, nascosti, ci siano determinati sentimenti di soddisfazione e che da questi sentimenti di soddisfazione, che a volte possono persino essere di trionfo possa derivare qualcosa di molto pericoloso, se essi si verificano spesso e si sommano. E questa esperienza della morte altrui io credo sia un germe assolutamente essenziale del potere. E visto che Lei ha parlato proprio di Freud: io sono il primo ad ammettere che il modo in cui Freud cominciava le cose daccapo, senza lasciarsi spaventare o distogliere da nulla, ha lasciato su di me un’impronta profonda. È certamente vero che io oggi non sono più convinto di alcuni dei suoi risultati e che mi debbo opporre ad alcune delle sue specifiche teorie. Ma per il suo modo di affrontare le cose ho, come sempre, il massimo rispetto».

L’ultimo esorcista

Dal libro “L’ultimo esorcista. La mia battaglia contro Satana” (2011). Estratto della parte introduttiva intitolata “Svegliamoci prima che sia troppo tardi”, Padre Gabriele Amorth (1925-2016). «Chiedo scusa ai lettori se, dopo aver scritto tanti libri su Satana e gli esorcismi, oso ancora presentarne uno nuovo con la pretesa di non ripetere ma di completare quanto già detto. Mi spingono il Vangelo, san Paolo, la Madonna. Anzitutto vorrei dire una cosa sul titolo scelto, L’ultimo esorcista. È un titolo volutamente provocatorio. È ovvio che io non sono l’ultimo esorcista rimasto in questo mondo. Dopo di me altri ce ne saranno e già ce ne sono, anche di giovani. Ma nel mondo siamo in così pochi che ognuno di noi nella sua battaglia quotidiana si sente inevitabilmente come se fosse l’ultimo, l’ultimo esorcista chiamato a combattere contro il grande nemico, il principe di questo mondo, Satana. Spero che tutti gli altri esorcisti, a cominciare dagli amici dell’Associazione Internazionale degli Esorcisti di cui sono presidente emerito, non si offendano e capiscano la provocazione sottesa al titolo. Io non mi sento più grande di loro. Sono, come loro, un umile servitore del regno del bene, un combattente di Cristo contro il regno del male. Parto dal Vangelo. Gesù per tre volte chiama Satana «principe di questo mondo». San Giovanni precisa che tutto il mondo giace sotto il potere di Satana. E ci dice che lo scopo per cui Gesù è venuto al mondo è per distruggere le opere di Satana. Satana è l’avversario infaticabile di Dio. San Paolo osa chiamare Satana «dio di questo mondo» e afferma che la nostra lotta quotidiana non è contro persone in carne e ossa, ma contro Satana e i suoi angeli, che ci avvolgono incessantemente. Oggi nelle nostre chiese si parla poco di Satana e tanti, anche nel clero, non credono alla sua esistenza. Infine sono spinto dalla Vergine Santissima. Da oltre trent’anni seguo le apparizioni di Medjugorje, questa stupenda catechesi che la Madonna rivolge a tutto il mondo e che è la continuazione dei messaggi di Fatima. È una predicazione formidabile, quale mai avvenne nella storia dell’umanità. La Madonna che cosa propone? Parla continuamente dei piani di Dio e dei piani di Satana. Dio vuole l’amore, la pace, la salvezza eterna. Satana vuole la distruzione del mondo. La Madonna sta formando una sua armata, sparsa su tutta la terra. Con la forza della conversione, del rosario, del digiuno questa sua armata vincerà l’armata di Satana, che vuole la guerra, la distruzione, la dannazione eterna; provoca inoltre altri mali, come la possessione diabolica».

Codice della vita italiana

Estratto dalla nota introduttiva del testo dal titolo “Codice della vita italiana”, G. Prezzolini (1921). «Tra la legge scritta e la vita vissuta, tutti sappiamo che bella differenza passa. Lo Statuto e i Codici che cosa ci dicono di realistico sul nostro Paese? Lo abbiamo imparato, a spese nostre; lo sa la nostra testa, che ha ripetutamente urtato contro quanto ignorava; lo sanno le nostre spalle, che di questa ignoranza han portato il peso! E perché non cerchiamo di togliere ai giovani la parte più grave di tal noviziato? Perché non proviamo a insegnare loro in che Paese veramente sono nati, quali ostacoli troveranno, quante strade hanno aperte? Ho cercato di esporre in poche formule alcuni degli aspetti realistici della nostra vita e delle consuetudini della gran maggioranza degli Italiani. So bene che si griderà in pubblico al diffamatore, pur riconoscendo in privato la giustezza delle mie osservazioni. Ma, appunto perché so tutto questo, non me ne preoccupo tanto. E quanto alle eccezioni riconosco volentieri che ce ne sono. Non è già forse questo scritto stesso un’eccezione a quella regola, che si potrebbe benissimo aggiungere alle altre innanzi esposte, per cui “certe cose si fanno ma non si dicono”? C’è molta amarezza, in espressioni che han l’aria - soltanto l’aria, pur troppo – del paradosso. Amarezza e, qualche volta, disperazione. Quando si vive in Italia, più d’una volta accade di domandarsi perché non si prende il primo piroscafo che parte per il nuovo mondo, dove, molto lontani, attraverso il velo della poesia, e senza alcun contatto con i cattivi campioni della madre patria, tutto quello che c’è di bello e di sano può tornare in mente e destare persin nostalgia. Si, siamo ridotti a questo, qualche volta: a rendere idealmente un piroscafo e guardarla da lontano, questa nostra Italia, per poterla amare davvero A guardarla come posteri; anzi peggio: come stranieri. Io ho fede nell’Italia piuttosto attraverso un rinnovamento educativo che attraverso uno politico, preferisco un miglioramento del carattere a una modificazione delle istituzioni. Ho più fede negli umili, che nei grandi; in coloro che occupano posizioni secondarie, che in quelli che sono arrivati in alto. Penso che i valori della nostra tradizione hanno bisogno di cambiamenti radicali. Il mio ideale d’Italiani è quello di uomini più pratici, più severi, più colti, più aperti alla visione del grande mondo moderno. Sento che si potrebbe arrivare ad un profondo rivolgimento spirituale in breve tempo: in un paio di generazioni; a patto di sentire la nostra attuale complessiva inferiorità, rispetto ad altri popoli; a patto di una rinunzia rigida a consuetudini che abbassano soprattutto il nostro valore morale e la nostra dignità; a patto di un esame di coscienza purificatore. Certamente non è facile dire a noi stessi ed in pubblico: ho peccato; ma non vi è correzione possibile se non a traverso questa confessione».

Situazione carceri

Il Centro di ricerca “Diritto penitenziario e Costituzione - European Penological Center” di Roma Tre ha ospitato l’incontro sulle attuali condizioni delle carceri italiane, promosso da Radio Carcere con Associazione Nazionale Magistrati, Unione Camere Penali Italiane e Radio Radicale. Roma 23.04.2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza Università degli Studi Roma Tre.

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Presentazione del Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Evento organizzato da Associazione Antigone. Roma 22.04.2024, presso la sede dell’Associazione Stampa Romana.

Gli squilibri italiani

Estratto da “Gli squilibri amministrativi italiani e le loro cause. Qualche rimedio”, Sabino Cassese, in, MicroMega 2/86, pp. 184-185: «Per porre rimedio al groviglio di problemi occorrerebbe riscrivere la storia d’Italia (senza esser neppure sicuri di saperla riscrivere meglio) e poter modificare la società per decreto (ciò che non è né possibile, né auspicabile). Accontentiamoci di qualche indicazione utile a correggere gli effetti  disfunzionali maggiori. In primo luogo, l’intervento dei giudici nella vita amministrativa e le distorsioni che ne derivano dipendono dalla circostanza che le amministrazioni pubbliche hanno abbassato la guardia e abbandonato il buon uso antico degli uffici ispettivi. La conseguenza è nota anche nella vita quotidiana degli uffici, dove non si e pagati per lavorare, ma per aver vinto un concorso, essendo il lavoro rimesso alla buona volontà di ciascuno. Tutto ciò non è più tollerabile e richiede uffici di supervisione e verifica, anche se non alla vecchia maniera, ma di esame dei carichi di lavoro, della loro distribuzione tra uffici e impiegati, dei costi, dei rendimenti. Una amministrazione che si controlla e corregge da se non avrà più bisogno di interventi giudiziali, salvo i casi maggiori e di vera rilevanza penale. Il secondo gruppo di squilibri è troppo legato a fattori storici e sociali perché si possa porre rimedio ad essi. Anche in questo caso, si può, però, tentare di correggere i maggiori effetti negativi. Occorre organizzare la convivenza di tanti poteri pubblici, in continuo rapporto tra di loro, talora in conflitto, talora legati da patti non chiari. L’idea che abbiamo ricevuto è quella che un ufficio non deve intromettersi in altri, né duplicarli, perché la duplicazione e i conflitti sono costosi. Come nella costruzione antropomorfica dello Stato, si è ritenuto che la razionalità sia la stessa a livello individuale e a quello dell’organizzazione. Si è applicata la metafora della macchina alle amministrazioni: frizione e conflitto producono inefficienza; quindi, riducendo i conflitti con la riduzione di competenze che si sovrappongano, si aumenta l’efficienza. L’ideale monopolistico, applicato alle amministrazioni, è, in realtà, una eccezione. I sistemi politici sono basati sul principio della concorrenza. Vale – come si vede – il caveat iniziale: le vicende dell’amministrazione si intersecano frequentemente con quelle della società, i problemi di questa aggravano quelli della prima».

II sentimento di mafia

Tratto da “Che cosa è la mafia” (1900), Gaetano Mosca (1858-1941). Per il noto giurista e politologo italiano, il sentimento di mafia, o spirito di mafia, «consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti ricevuti. Sicché mentre generalmente è ammesso, anche da coloro che agiscono secondo le norme dello spirito di mafia, che il furto semplice, la truffa, lo scrocco ed in genere tutti i reati nei quali l’autore si aiuta esclusivamente coll’astuzia e l’inganno e non presume di esercitare una violenza e di avere forza e coraggio maggiore della vittima, si possono denunziare alla giustizia, ciò invece sarebbe interdetto da un falso sentimento di onore, o di dignità personale, quando il reato riveste il carattere di una imposizione aperta e sfacciata, di un torto, che il reo intende di fare specificatamente ad un dato individuo, al quale vuole far sentire la propria superiorità e col quale non cura di stare in buoni rapporti perché non ne teme l’inimicizia ed il rancore. Le offese all’onore delle famiglie, le percosse, le violenze personali, l’omicidio in rissa o per agguato sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è ritenuta dai mafiosi cosa sconveniente e vile, che porta con sé una specie di squalificazione cavalleresca. È per questa ragione che gli Italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo il forestiero in generale rapporti con la classe delinquente, è difficile che contro di lui possa addursi il pretesto di una vendetta personale. È per la stessa ragione che gli stessi Siciliani che abitano nelle grandi città dell’isola raramente sono vittime di reati premeditati; giacché nelle grandi città ognuno può scegliere liberamente le persone colle quali vuole stabilire qualunque genere di rapporti ed i rancori personali più difficilmente si accendono e non trovano alimento nei contatti e negli attriti quotidiani come avviene nei piccoli centri».

L’espressione dei sentimenti

Tratto da “L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali” (1878) Charles Darwin: «Ci gioveremo qui dei fatti osservati tanto nell’uomo che sugli animali; ma sono da preferirsi gli ultimi, perché meno soggetti a trarci in inganno. Principio dell’associazione delle abitudini utili. In date condizioni dell’animo, per rispondere o per soddisfare a date sensazioni, a dati desiderii, ecc., certe azioni complesse sono di un’utilità diretta o indiretta; e tutte le volte che si rinnovella il medesimo stato di spirito, sia pure a un debole grado, la forza dell’abitudine e dell’associazione tende a produrre gli stessi movimenti, benché d’uso veruno. Può nascere che atti ordinariamente associati per l’abitudine a certi stati d’animo sieno in parte repressi dalla volontà; in tali casi, i muscoli sopra tutto quei meno soggetti alla diretta influenza della volontà, possono tuttavia contrarsi e produrre movimenti che ci paiono espressivi. Altra volta, per reprimere un movimento abituale, altri leggieri movimenti si compiono, e pur essi sono espressivi. Principio dell’antitesi. Talune condizioni di spirito determinano certi atti abituali che sono utili, come lo stabilisce il nostro primo principio. Dappoi, allorché si produce uno stato dell’animo direttamente inverso, siamo fortemente e involontariamente tentati di compiere movimenti del tutto opposti, per quanto inutili, e in alcuni casi questi movimenti sono molto espressivi. Principio degli atti dovuti alla costituzione del sistema nervoso, affatto indipendenti dalla volontà e, fino a un certo punto, anche dall'abitudine. Quando il cervello è fortemente eccitato, la forza nervosa si produce in eccesso e si trasmette in certe determinate direzioni, dipendenti dalle connessioni delle cellule nervose, e in parte dell’abitudine; oppure può avvenire che l’afflusso della forza nervosa sia, in apparenza, interrotto. Ne risultano effetti che noi troviamo espressivi. Questo terzo principio potrebbe per maggior brevità dirsi quello dell’azione diretta del sistema nervoso» (cfr. Darwin, 1878).

Prospettive minori

Presentazione del Rapporto sulla Giustizia Minorile in Italia. Dibattito organizzato Antigone, Associazione per i Diritti e le Garanzie nel Sistema penale, tenutosi martedì 20 febbraio 2024 presso il Roma Scout Center. Registrazione video a cura di Radio Radicale. Testo tratto dall’introduzione: «Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, data in cui entrò in vigore un procedimento penale specifico per i minorenni, è sempre stato un vanto per il paese. Mettendo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo, nella quale educare è preferibile al punire, ha garantito tassi di detenzione sempre molto bassi, una preferenza per misure alternative alla detenzione in carcere, come ad esempio l’affidamento alle comunità e ottenuto un’adesione al percorso risocializzante ampio da parte dei giovani».

La mafia non è finita

Opinioni a confronto rispetto all’interrogativo se “Lo Stato ha trattato o no con la mafia nel biennio 1992-1994”. Convegno tenutosi a Bologna sabato 17 febbraio 2024, pubblicato da Radio Radicale, sulla traccia del saggio dal titolo “La mafia non è finita. Dalla trattativa con lo Stato all’arresto di Messina Denaro”, editore GoWare (Firenze), autore Prof. Salvatore Sechi, docente e ricercatore di Storia contemporanea, appassionatamente contestato durante il Convegno da Valter Vecellio, giornalista e direttore della rivista “Proposta Radicale”. Estratto dalla descrizione del testo: “Resta perciò indimenticabile la stagione delle grandi stragi del 1992-1994. Vi perirono Falcone, Borsellino, i luogotenenti di politici, decine di agenti di scorta. Le due ultime sentenze del Tribunale di Palermo hanno confermato un episodio impressionante”.

Anno Giudiziario 2024

Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2024 tenutasi a Perugia, presso l’Aula Goretti della Corte di Appello. Segue un estratto, con in fondo il link al documento integrale, del discorso del Presidente F.F. della Corte di Appello di Perugia: «si è tornati a celebrare l’inizio dell’anno giudiziario con una cerimonia aperta al pubblico che ne sottolinea ancora di più l’importanza non solo per la Magistratura ma per l’intera collettività in questo particolare momento storico caratterizzato da riforme incisive che hanno riguardato il settore civile e penale nell’ottica di una Giustizia più efficiente ed efficace a servizio degli utenti. Ringrazio, quindi, tutti coloro che oggi sono qui e lasciatemi rivolgere un ringraziamento particolare a tutti i Colleghi, a tutto il personale amministrativo e ai funzionari UPP. È stata, infatti, la costante collaborazione di tutti, ciascuno nei propri ruoli e nelle proprie funzioni, che ha consentito ad ogni Ufficio di riorganizzarsi per rendere attuali i cambiamenti derivanti dalle Riforme e per rispondere alle sempre nuove esigenze con le sempre insufficienti risorse numeriche la cui inadeguatezza è stata sempre colmata da uno spiccato spirito di servizio che ha permesso di superare le difficoltà di volta in volta incontrate». Ed ancora: «Un particolare apprezzamento va al Procuratore Generale, dr. Sergio Sottani, con il quale è stato possibile realizzare una costante collaborazione tra Corte di Appello e Procura Generale che ha portato alla realizzazione di progetti aventi rilevanza nazionale, come il Progetto della Banca dati della giurisprudenza di merito, ed altri aventi rilevanza locale, ma sicuramente non meno importanti, come la predisposizione del Bilancio sociale, di corsi di formazione condivisi, di interlocuzioni con la cittadinanza rispetto alle attività portate avanti dalla Magistratura al di fuori della sua ristretta funzione giurisdizionale, ma anche di risultati importanti per il benessere lavorativo all’interno del Palazzo del Capitano del Popolo». Link al documento integrale.


Il tempo della verità

Roma, 15 Gennaio 2024, convegno dal titolo “Lo Stato e la mafia: il tempo della verità”. L’evento è stato organizzato da Fondazione Italia Protagonista. Registrazione di Radio Radicale. Presenti, tra gli altri, il generale Mario Mori ed il colonnello Giuseppe De Donno; gli avvocati Antonio Ingroia (all’epoca dei fatti in narrazione pubblico ministero a Palermo) e Basilio Milio (difensore dei due ufficiali dei carabinieri nel processo della trattativa Stato-mafia). A margine dell’incontro il generale Mori ha affermato che dopo tanti anni «una verità di natura giudiziaria e processuale è molto difficile». Mentre Ingroia ha affermato che «se facessi ancora il pubblico ministero metterei ancora la mia firma a quella richiesta di rinvio a giudizio, perché il PM ha l’obbligo di esercitare l’azione penale se ci sono presupposti per farlo, non sulla base di pregiudizi o inimicizie».

Le sostanze stupefacenti

Convegno registrato e pubblicato da Radio Radicale, dal titolo: “Le sostanze stupefacenti, trattamento sociale e trattamento sanzionatorio”. Evento organizzato da Lions Club Roma Accademia e Unione Italiana Forense. Parte dell’ultimo intervento: «Nel prossimo incontro noi chiederemo la partecipazione del questore del prefetto. Perché è evidente che se non si interviene nei luoghi dove viene utilizzata soprattutto dai minori la sostanza stupefacente e dove ci sono i minori è possibile intervenire senza chiedere niente a nessuno, significa che non si vuole arginare questo fenomeno. E allora noi non ci stiamo. Bisogna che il tema sia all’ordine del giorno e diventi una priorità della politica perché è diventato veramente troppo frequente l’uso delle sostanze stupefacenti tra minori. Bisogna educare e quindi dobbiamo coinvolgere di più le scuole non quelle che sostituiscono la parola Gesù con la parola cucù perché non è politicamente corretto adesso, ma le scuole che devono riprendere quella funzione formativa. Soprattutto con riferimento ai valori e devono insegnare anche il sacrificio ai ragazzi».