Disturbo del comportamento

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado con la quale Tizia fu ritenuta responsabile del reato di furto aggravato e continuato, affermando che «la tesi sostenuta dal perito, secondo il quale la cleptomania non è una malattia mentale, ma un disturbo del comportamento che incide sull’imputabilità soltanto nel caso in cui si riesca a dimostrare che il reato è stato posto in essere per un impulso improvviso e non controllabile, fosse più attendibile, perché sostenuta da ampia letteratura scientifica, rispetto alla contraria tesi sostenuta dal consulente di parte, il quale ha ritenuto che, a causa della diagnosticata cleptomania, Tizia potesse essere anche per un tempo prolungato in condizioni psichiche di totale infermità mentale per un crollo della volontà di natura psicopatologica».

La stessa sentenza ha inoltre rilevato che «le concrete modalità dei fatti e, in particolare, l’immediata disponibilità di un paio di forbici (che l’imputata custodiva nella borsa e utilizzò per rimuovere gli strumenti antitaccheggio), dimostrano una preordinazione incompatibile con un impulso incontrollato. Ha sottolineato poi che il consulente di parte non ha fornito argomentazioni idonee a contestare la natura programmata dell'azione desumibile dal possesso di un tale strumento».

Ma non è tutto, infatti, i giudici di appello hanno altresì evidenziato che «il perdurare per giorni, o anche solo per ore, di una ideazione viziata, non è compatibile con la condotta concretamente tenuta dall’imputata, consistita nell’appropriarsi di capi di abbigliamento femminile non economici, scelti in base alle proprie personali esigenze: una condotta preordinata e razionale che non può essere considerata espressione di un impulso irrefrenabile». Inoltre: «tra i criteri per la diagnosi di cleptomania, vi è la ricorrente incapacità di resistere agli impulsi di rubare oggetti che non sono necessari per un uso personale o per un valore economico, situazione ben diversa da quella verificatasi nel caso di specie».

Ebbene, a nulla è valso il ricorso per cassazione, giacché la Suprema Corte lo ha dichiarato inammissibile condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali, e tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che la medesima non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, ha anche disposto a suo carico l’onere di versare la somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, importo così determinato in considerazione delle ragioni di inammissibilità (Cass. Sez. IV Pen. Anno 2023).