Estorsione di lieve entità

Relativamente all’ordinanza del 20 giugno 2022, con la quale il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629 del codice penale, «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita in misura non eccedente i due terzi quando il fatto risulti di lieve entità», e, in via subordinata, «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita quando il fatto risulti di lieve entità». Nonché, all’ordinanza del 18 luglio 2022, con la quale il Tribunale ordinario di Roma, sezione ottava penale, in composizione collegiale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629, primo e secondo comma, cod. pen., «nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»; la Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità; e dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi quando il fatto risulti di lieve entità, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, Sentenza 120/2023).

Permesso di soggiorno

A proposito di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, già rilasciato per motivi di lavoro subordinato, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, richiamando precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha ribadito il concetto secondo cui «la evasione fiscale e contributiva, in conformità con il principio di legalità, non può essere una ragione, neanche indiretta, di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto il legislatore non ha previsto che la evasione fiscale sia causa ostativa, in se stessa considerata, per cui una eventuale situazione di evasione in capo all’immigrato, regolarmente accertata, deve essere oggetto di provvedimenti tipici, adottati dai organi competenti dell’Amministrazione fiscale e dagli enti previdenziali, diretti al contrasto all’evasione mediante sia il recupero del credito sia la sanzione dell’inosservanza della fiscale e tributaria».

A maggior ragione nel caso in esame, laddove, peraltro, «non risulta alcuna evasione fiscale, né è stato previamente accertato se in effetti nel corso degli anni sussistesse un obbligo di effettuare la dichiarazione dei redditi, se non ricorressero cioè, pur in presenza di un ipotetico reddito, fattispecie di esenzione dal suddetto obbligo» (CGARS, Sentenza 379/2023).

Diritto al silenzio

Ritenuto, che il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.»; ed in via subordinata, il medesimo Tribunale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale»; nonché, dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere»; la Corte Costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale; nonché, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni; ed inoltre, ha dichiarato non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, Sentenza 111/2023).