Licenziare per scarso rendimento

Atteso che il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento presuppone la dimostrazione di un notevole inadempimento da parte del medesimo, nel caso qui in esame, il giudice dell’opposizione, dapprima operava la conversione del recesso per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore per scarso rendimento, per poi – esclusa ogni ipotesi di ritorsione del recesso datoriale – giungere alla conclusione che, pur essendo stato l’inadempimento del lavoratore limitato nel tempo, l’intensità si era rivelata talmente notevole al punto da comportare – insieme alla mancanza di elementi obiettivi che giustificassero la riduzione dell’attività – la condivisibilità circa la valutazione operata nella sentenza reclamata.

Ebbene, avverso tale decisione, l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, ma i giudici di legittimità, richiamando pregressa giurisprudenza, hanno ribadito il principio secondo cui nel «licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - cui spetta l’onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione».

Infatti, nel caso di specie, la decisione impugnata ha dato conto della contestazione al lavoratore condividendo l’accertamento compiuto dal primo giudice, «rilevando che il ricorrente aveva reso una prestazione lavorativa insufficiente per l’esiguità» dei clienti visitati. Sicché, circa lo specifico profilo di accertamento della gravità dell’inadempimento, il «licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento».

Pertanto, è sempre legittimo il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento «qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione» (Cass. Sez. Lav. Ord. 9453/23).

Incapacità dell’imputato

Con riferimento alla sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che il giudice dichiari non doversi procedere nei confronti dell’imputato, anche nei casi in cui la sua irreversibile incapacità di partecipare coscientemente al processo discenda da patologie fisiche e non mentali», ed in via subordinata, dell’art. 159 c.p., sempre per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che la sospensione del decorso della prescrizione, nel caso in cui dipenda da sospensione del processo per impossibilità di procedere in assenza dell’imputato, non operi anche nelle ipotesi in cui tale sospensione sia imposta dall’impossibilità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo»; la Corte Costituzionale, con la sentenza oggi in esame, si è così pronunciata.

Premesso, che il Tribunale rimettente riferisce che nel giudizio principale è imputata una persona affetta da SLA, malattia che ne ha progressivamente determinato la paralisi con incapacità di parlare e di respirare in autonomia, e che, dunque, l’impossibilità di pronunciare la sentenza di improcedibilità ex art. 72-bis c.p.p. in ragione della natura fisica e non mentale dell’infermità si risolverebbe in un’irragionevole disparità di trattamento, nonché – considerata l’effettività del diritto all’autodifesa –, per partecipazione cosciente al processo «non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui», ma «comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa»; ne consegue che il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato, intesa con l’aggettivo “mentale”, determina un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato che non può «esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa» le facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione».

Per tali motivi, è costituzionalmente illegittimo l’art. 72-bis c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; parimenti, costituzionalmente illegittimi sono l’art. 70 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché «psicofisica»; l’art. 71 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; l’art. 72 c.1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché «psicofisico» e comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico». Sicché, l’accoglimento della questione principale comporta l’assorbimento di quella subordinata (Corte Costituzionale, Sent. 65/2023).

Responsabilità genitoriale

Con ricorso e motivi aggiunti depositati in atti, (omissis), esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore, hanno impugnato dinnanzi il Tribunale Amministrativo Regionale i provvedimenti disciplinari emessi nei confronti del medesimo figlio, in particolare con riguardo all’allontanamento dalla comunità scolastica fino al termine dell’anno scolastico, nonché esclusione dello scrutinio finale, irrogati in conseguenza dei gravi atti commessi nei confronti di un compagno di scuola.

Secondo i ricorrenti, il figlio, prima dell’episodio contestato, ha sempre tenuto un comportamento corretto sia a scuola che fuori dall’ambiente scolastico, e che quindi nella vicenda che ha «originato i provvedimenti impugnati lo stesso minore avrebbe agito sotto l’influenza negativa di un compagno di scuola fortemente problematico e con trascorsi disciplinari, nei cui confronti era diffuso un senso di sudditanza psicologica, e che la condotta del proprio congiunto sarebbe stata di minore gravità rispetto a quella del compagno di scuola».

Ebbene, atteso che sul sito internet istituzionale della scuola risulta pubblicato sia il “Regolamento di Istituto”, sia le “Norme generali di comportamento” con l’individuazione delle sanzioni irrogabili nell’eventualità della loro trasgressione, nel caso di specie il provvedimento di allontanamento (espulsione) risulta comunque essere stato adottato dopo aver sentito le argomentazioni difensive addotte dallo studente alla presenza del padre, il quale ammetteva di aver commesso il grave fatto contestato così come riferito da un educatore scolastico.

Sicché, ravvisata la commissione di fatti astrattamente configurabili come reato e lesivi della dignità della persona umana (violenza privata o sessuale), con valutazione che non appare viziata da profili di irragionevolezza, anche in considerazione del pericolo di reiterazione delle condotte nei confronti degli altri studenti, discende l’infondatezza delle argomentazioni difensive con conseguente legittimità della sanzione dell’allontanamento del minore fino alla fine dell’anno scolastico ed accompagnata dall’esclusione dallo scrutinio finale. E dunque «tenuto conto della gravità dei fatti contestati al ricorrente, e da quest’ultimo ammessi, non si ravvisano i profili di eccesso di potere denunziati dal ricorrente, né può fondatamente ritenersi che il provvedimento sia illegittimo per mancata ammissione dell’incolpato alla conversione della sanzione in attività in favore della comunità scolastica». Inoltre, i motivi aggiunti prodotti dalla difesa, non trovano accoglimento nel merito «in considerazione della valutazione riportata dal ricorrente con riguardo alla condotta, che da sola giustifica la non ammissione all’anno successivo».

In conclusione, il ricorso è stato respinto ed i motivi aggiunti dichiarati improcedibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite oltre oneri ed accessori di legge (TAR Umbria, Sent. 90/23).

Immigrazione clandestina

Tornando al tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il Tribunale ordinario sollevò questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12 c. 3, lett. d), D.Lgs. 286/98 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «limitatamente alle fattispecie di impiego di servizi internazionali di trasporto o di documenti falsi o illegalmente ottenuti, nella parte in cui prevede l’aggravamento di pena rispetto all’ipotesi semplice», ciò in riferimento al principio di uguaglianza-ragionevolezza e di proporzionalità della sanzione penale di cui agli artt. 3 e 27 c.3 Cost.

Il caso in esame riguardava l’accertamento di responsabilità penale in capo ad una donna imputata per avere accompagnato in Italia - su un aereo di linea utilizzando passaporti falsi - due bambine infraquattordicenni le quali, secondo le relazioni delle assistenti sociali, risulterebbero essere rispettivamente sua figlia e sua nipote.

Ebbene, il punto centrale delle questioni di legittimità costituzionale sollevate riguarda la manifesta irragionevolezza dell’aumento della pena detentiva (nei termini di una quintuplicazione del minimo, che passa da uno a cinque anni, e di una triplicazione del massimo, che passa da cinque a quindici anni) stabilita per le due ipotesi aggravate all’esame, rispetto a quella prevista per la fattispecie base, e tale manifesta irragionevolezza si tradurrebbe in una pena manifestamente sproporzionata sia rispetto alla intrinseca gravità della tipologia di fatti sanzionati, sia alla pena prevista, appunto, per la fattispecie base di reato.

Inoltre, con riguardo alla previsione di una pena minima di cinque anni e di una massima di quindici anni di reclusione per un fatto ordinariamente punibile con la reclusione da uno a cinque anni, solo in ragione dell’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o anche soltanto illecitamente ottenuti, presenta tratti di assoluta anomalia “intrasistematica” rispetto alle scelte sanzionatorie tanto del codice penale, quanto della legislazione di settore. Ed una simile anomalia non può che tradursi in una valutazione di manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi aggravata all’esame.

Di conseguenza, fermo restando il possibile concorso con gli eventuali reati di falsità documentale che dovessero in ipotesi ravvisarsi nei singoli casi, la disposizione in esame è stata dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti» (cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 63/22).