Il tanto evocato 41-bis

L’argomento oggi in esame è tutt’altro che irrilevante, specie se si tiene conto del dibattito pubblico che nelle ultime settimane sta scuotendo la politica e non solo. Ebbene, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi circa la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario «nella parte in cui assegna all’autorità ministeriale, e non a quella giudiziaria, la competenza ad emettere una misura che, per natura giuridica e finalità, oltre che per l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità e dottrinale, rientra nel novero delle misure di prevenzione personali»; sicché, prosegue la doglianza difensiva avverso la decisione del Tribunale di Sorveglianza: «l’applicazione della misura di prevenzione spetta all’Autorità giudiziaria e non al Ministro espressione del potere politico». Ma non è così per i giudici di legittimità.

Infatti, richiamando giurisprudenza pregressa, è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata allorché sono individuabili plurimi profili di «differenza strutturale tra l’istituto di cui all’art. 41-bis e la misura di prevenzione in senso stretto». Infatti, l’art. 41-bis ord. penit. «postula la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che la perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui egli appartiene». Con la specifica previsione che «le misure di prevenzione vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi sia ritenuto pericoloso in dipendenza, non necessariamente di condanne o di misure cautelari, ma dello stile di vita. Anche negli effetti va osservato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che manifestino capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive all’esterno del carcere. Ciò comporta una limitazione dei diritti soggettivi, non già la loro radicale privazione».

Tant’è, sulla scorta di tali presupposti, «il regime detentivo differenziato non viene imposto in via automatica a tutti i detenuti che abbiano riportato condanna per determinati titoli di reato, ma selettivamente a coloro di essi che presentino caratteristiche personali e specifiche di pericolosità, legate alla loro appartenenza ad organizzazioni criminali strutturate, distinguendoli dai comuni soggetti sottoposti a pena detentiva». Perciò è da escludersi una «disparità di trattamento, rispetto al sistema delle misure di prevenzione, sotto il profilo dell’adozione del provvedimento impositivo di tale regime o della sua proroga da parte dell’autorità amministrativa, anziché per decisione giudiziale come, invece, previsto per le misure di prevenzione» (Cass. I Pen. Sent. 5363/23).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 02E23 del 15/02/2023