Unità delle nazioni

Registrazione video di Radio Radicale del dibattito dal titolo “Unità delle nazioni, Israele e cristianesimo”. Presentazione di alcuni volumi tra cui “La terra di Israele e il suo significato per i cristiani”, Pierre Lenhardt (1927-2019), tra i più noti studiosi cattolici dell’ebraismo, Morcelliana edizioni: «L’accordo del dicembre 1993 tra Stato d’Israele e Santa Sede ha instaurato una nuova realtà nella quale le due parti fanno riferimento alla natura unica della relazione tra Chiesa cattolica e popolo ebraico e segnalano il progresso che si fa nella mutua comprensione e amicizia tra cattolici ed ebrei». Una rivisitazione della Tradizione di Israele, che, per l’autore, «deve accompagnarsi, da parte cristiana, con il riconoscimento del valore che, in Gesù Cristo, ha per i cristiani stessi la Terra d’Israele».

Assemblea Costituente

Seduta pomeridiana del 22 dicembre 1947 (estratto). “Questa è un’ora nella quale chi è adusato alle prove parlamentari, chi è stato in trincea, chi ha conosciuto il carcere politico, è preso da una nuova e profonda emozione. È la prima volta, nel corso millenario della storia d’Italia, che l’Italia unita si da una libera Costituzione; Un bagliore soltanto vi fu, cento anni fa, nella Roma repubblicana di Mazzini. Mai tanta ala di storia è passata sopra di noi. E ciò avviene in una congiuntura non ancora definita, in un processo di trasformazione ancora in cammino, in cui alcuni istituti vecchi non sono ancor morti, ed altri nuovi non sono ancora interamente vivi. Esistono due crepuscoli tra il giorno e la notte: questo che ora scorgiamo sarà per la nostra Italia crepuscolo di aurora e non di tramonto. Dobbiamo darci la nostra Costituzione in una situazione tragica; dopo la disfatta; dopo l’onta di un regime funesto. Dobbiamo cercare di costruire qualche cosa di saldo e di durevole, mentre viviamo in piena crisi politica, economica, sociale. Ebbene, vi siamo riusciti. L’Italia darà un’altra prova di ciò che è stato il segno della sua storia e la rende inconfondibile con le altre nazioni: l’Italia è la sola che abbia saputo e saprà, risorgendo, rinnovare e vivere fasi successive ed altissime di nuove civiltà” (RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione).


Stato di diritto

Radio Radicale pubblica il Convegno dal titolo “I limiti alla tolleranza dello Stato di diritto verso il negazionismo”, ponendo come interrogativo: “ È consentito al negazionista negare l’esistenza dell’Olocausto?”. Organizzatore: Corte dei conti. All’evento sono intervenuti: Giuliano Amato (presidente emerito della Corte Costituzionale); Aldo Carosi (giudice emerito della Corte Costituzionale); Daniela Bifulco (docente presso l’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli); Francesco Clementi (ordinario Diritto Pubblico Comparato, Università La Sapienza); Lorenzo Delli Priscoli (magistrato del Massimario civile della Corte Suprema di Cassazione); Pasquale Principato (magistrato).

Craxi e Andreotti

Radio Radicale propone la presentazione del volume “Craxi Andreotti. Politiche, stili e visioni tra conflitti e collaborazioni”, Angeli editore, 2023, a cura della “Fondazione Bettino Craxi ETS”. «Bettino Craxi e Giulio Andreotti: due figure che hanno segnato il panorama politico-istituzionale italiano per un lungo tratto di storia del secondo Novecento. Cresciuti entrambi nell’arena delle organizzazioni studentesche universitarie, hanno avuto un percorso politico-formativo basato su riferimenti storici e culturali assai diversi, che hanno marcato l’articolazione successiva delle scelte politiche e degli orizzonti strategici. L’esperienza dei governi Craxi, a metà degli anni Ottanta, rappresenta un momento di collaborazione fra l’esponente socialista e quello democristiano che, rispettivamente nel ruolo di presidente del Consiglio e di ministro degli Affari esteri, hanno contribuito al rilancio e al rafforzamento dell’immagine dell’Italia, consentendole di agire sul proscenio internazionale con voce autorevole per la risoluzione dei grandi nodi che segnavano la complessità contemporanea».


Diffamazione aggravata

Nella ipotesi delittuosa di diffamazione commessa attraverso l’utilizzo delle piattaforme social – come nel caso qui in esame –, i giudici di legittimità hanno ribadito il consolidato orientamento secondo cui «il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che, postulando l’esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusa la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e funzionali all’opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e i valori che si ritengono compromessi».

Sicché, se da un lato «la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica», dall’altro lato è necessario che «occorre rispettare il requisito della continenza delle espressioni utilizzate per esprimere la propria opinione».

Tuttavia, in materia di diffamazione a mezzo stampa in generale, oppure come nel caso qui in trattazione, vale a dire con l’utilizzo delle piattaforme social, «il diritto di critica politica consentito, che trova fondamento nell’interesse all’informazione dell’opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli esponenti politici e dei pubblici amministratori, non deve comunque essere avulso da un nucleo di verità» (Cassazione Penale 46496/2023).

Master e formazione

Segnalo il Master di secondo livello in “Diritto penitenziario e Costituzione”, giunto alla sua XI edizione, realizzato in convenzione tra il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre e i Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e per la Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC).

Il Corso ha l’obiettivo di fornire una preparazione elevata nell’ambito degli studi penitenziari, con una particolare attenzione ai profili costituzionalistici che interessano l’esecuzione penale, ed è riservato a coloro in possesso di diploma di laurea magistrale o titolo equipollente.

La quota di iscrizione è di euro 3.600 e la domanda di ammissione deve essere presentata entro il 15 gennaio 2024. Maggiori informazioni su www.dirittopenitenziarioecostituzione.it

Direttore del Master è il Prof. Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università degli Studi di Roma Tre; Coordinatrice didattico-scientifica è la Dott.ssa Silvia Talini, Ricercatrice di Diritto costituzionale presso il medesimo Ateneo.

Di seguito una lezione di diversi anni fa tenuta dal Prof. Gaetano Silvestri, era settembre 2014, dal titolo “Il trattamento penitenziario nella più recente giurisprudenza costituzionale”.

Inchiesta mafia-appalti

Radio Radicale propone l’intervista a Mario Mori e Giuseppe De Donno (registrata sabato 18 novembre 2023), autori del libro “La verità sul dossier mafia-appalti”, edizioni Piemme (2023). I due autori sono stati protagonisti nella lotta contro Cosa Nostra, ma noti al grande pubblico soprattutto per il processo sulla presunta “Trattativa Stato-mafia”, concluso con la loro definitiva assoluzione. Oggi raccontano cosa c’è dietro la persecuzione giudiziaria e mediatica che hanno subito: il “Dossier mafia-appalti”. Dopo intense indagini l’informativa fu preparata dai carabinieri del ROS guidati da Mori e De Donno e consegnata a Giovanni Falcone, che le attribuì enorme importanza. Così come Paolo Borsellino credette che detta inchiesta fosse all’origine della morte di Falcone. Tuttavia, altri ne impedirono gli sviluppi.


Mobbing e Straining

In materia di tutela della personalità morale del lavoratore, nella qualificazione tra mobbing e straining ciò che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, riconduca alla «violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento», vale a dire: integrità psicofisica, dignità, identità personale, partecipazione alla vita sociale e politica.

Sicché, «la reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza».

Di fatto, siccome lo straining è «una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni», se viene accertato, la «domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta», perciò: il giudice «nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa petendi» (Cass. Sez. Lav. Ord. 29101/2023).

Delitti contro l’eguaglianza

Un conto è manifestare in favore di un Popolo che rivendica dei diritti, altro è inneggiare a dei criminali. Spunti per una riflessione collettiva.

Preliminarmente, c’è da rilevare che se da un lato sempre più persone sembrano non nutrire particolare fiducia nella giustizia, ergo nella magistratura, dall’altro lato va altrettanto sottolineato che in una democrazia, o comunque ciò che resta di essa, gli unici modi per far prevalere il principio di legalità sono due: il primo, banalmente, non violare le norme stabilite dall’ordinamento; il secondo, deferire all’autorità giudiziaria chi dette norme le vìola.

Tanto premesso, con il Decreto Legislativo 1 marzo 2018, n. 21, il nostro legislatore, a proposito di “delitti contro l’eguaglianza”, ritenne inserire nel codice penale l’art. 604-bis proprio in tema di “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”.
Il testo normativo, al di là della pena stabilita, qui non rileva, prevede la reclusione nei confronti di chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; nonché, la reclusione nei confronti di chi «in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» (sottolineatura da me aggiunta).

Ma non è tutto, infatti, si legge sempre nell’art. 604-bis c.p.: «è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; ed è altresì punito «chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività»; oltre a «coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi».

Un miracolo per l’Italia

Dalla copertina del libro “Un miracolo per l’Italia”. Magdi Cristiano Allam (2023).

«Stiamo assistendo e subendo uno scontro planetario dopo la fine del Mondo bipolare. Stati Uniti, Nato e Unione Europea promuovono un Nuovo Ordine Mondiale unipolare; scatenano guerre finanziarie, ideologiche, biologiche, psicologiche e convenzionali, con il rischio dell’apocalisse nucleare. In gioco c’è il futuro dell’Occidente, con il venir meno della supremazia del dollaro, lo strapotere della grande finanza speculativa globalizzata, il Mondo sottomesso a un debito incontenibile e inestinguibile, l’orientamento a trasformare l’umano in transumano e la realtà in virtualità tramite la digitalizzazione, robotizzazione, intelligenza artificiale, biotecnologie, manipolazione genetica. La civiltà dell’Europa è decaduta perché ha rinnegato se stessa, è stato un suicidio non un omicidio, come accadde all’Impero Romano d’Occidente nel 476. L’Italia ha perso la sovranità e l’indipendenza. La popolazione si estingue perché non si fanno figli. La democrazia si è rivelata partitocrazia consociativa. Il potere giudiziario ha preso il sopravvento su quello legislativo e esecutivo. Lo Stato è collassato perché oneroso, corrotto e inefficiente. L’economia reale è stata saccheggiata dalla finanza speculativa. La micro dimensione del localismo viene fagocitata dalla macro dimensione del globalismo, sia che si tratti di imprese, banche o istituzioni pubbliche. Le Forze dell’Ordine sono impossibilitate a garantire la sicurezza. Le Forze Armate sono inadeguate a difendere il territorio nazionale. Solo un miracolo potrà farci rinascere come civiltà, salvarci come popolo, riscattarci come Patria».

Ebbene, conosco Magdi da molto tempo e spesso ci confrontiamo su diversi temi. Un uomo dal garbo, educazione e generosità rari in una società come quella in cui viviamo. Le sue analisi sono sempre lucide e dettate da elevata cultura. Condivido gran parte delle sue riflessioni, ma non necessariamente sono d’accordo su tutto. Del resto tra studiosi-sociologi, quali entrambi siamo, è naturale sia così, diversamente sarebbe un problema. Diciamo che, probabilmente, il mio essere anche giurista porta a compiere una lettura dei fenomeni sociali in chiave parzialmente diversa.


Disturbo del comportamento

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado con la quale Tizia fu ritenuta responsabile del reato di furto aggravato e continuato, affermando che «la tesi sostenuta dal perito, secondo il quale la cleptomania non è una malattia mentale, ma un disturbo del comportamento che incide sull’imputabilità soltanto nel caso in cui si riesca a dimostrare che il reato è stato posto in essere per un impulso improvviso e non controllabile, fosse più attendibile, perché sostenuta da ampia letteratura scientifica, rispetto alla contraria tesi sostenuta dal consulente di parte, il quale ha ritenuto che, a causa della diagnosticata cleptomania, Tizia potesse essere anche per un tempo prolungato in condizioni psichiche di totale infermità mentale per un crollo della volontà di natura psicopatologica».

La stessa sentenza ha inoltre rilevato che «le concrete modalità dei fatti e, in particolare, l’immediata disponibilità di un paio di forbici (che l’imputata custodiva nella borsa e utilizzò per rimuovere gli strumenti antitaccheggio), dimostrano una preordinazione incompatibile con un impulso incontrollato. Ha sottolineato poi che il consulente di parte non ha fornito argomentazioni idonee a contestare la natura programmata dell'azione desumibile dal possesso di un tale strumento».

Ma non è tutto, infatti, i giudici di appello hanno altresì evidenziato che «il perdurare per giorni, o anche solo per ore, di una ideazione viziata, non è compatibile con la condotta concretamente tenuta dall’imputata, consistita nell’appropriarsi di capi di abbigliamento femminile non economici, scelti in base alle proprie personali esigenze: una condotta preordinata e razionale che non può essere considerata espressione di un impulso irrefrenabile». Inoltre: «tra i criteri per la diagnosi di cleptomania, vi è la ricorrente incapacità di resistere agli impulsi di rubare oggetti che non sono necessari per un uso personale o per un valore economico, situazione ben diversa da quella verificatasi nel caso di specie».

Ebbene, a nulla è valso il ricorso per cassazione, giacché la Suprema Corte lo ha dichiarato inammissibile condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali, e tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che la medesima non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, ha anche disposto a suo carico l’onere di versare la somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, importo così determinato in considerazione delle ragioni di inammissibilità (Cass. Sez. IV Pen. Anno 2023).

Dei delitti e delle pene

Alcune mie domande ed osservazioni preliminari. Posto su una scala dei valori: a quanti cittadini interessa realmente il fenomeno carcerario? A quanti interessa se in carcere si muore da suicida? A quanti interessa se gli operatori penitenziari sono vittime di aggressione un giorno sì e l’altro pure? Ed infine, si fa per dire: potrà mai la maggioranza delle persone avere una visione d’insieme di tali fenomeni diversa e soprattutto presa in autonomia (cioè scevra da interferenze propagandistiche) rispetto a quella oramai radicata?

Ebbene, a tal proposito propongo un classico, sempre attuale: Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Edizione commentata da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (2022), Torino, Giappichelli.

Estratto dall’introduzione del libro. «Leggere Dei delitti e delle pene è un’esperienza piena di sorprese. Di pagina in pagina si scoprono riflessioni, temi, argomentazioni che aprono veri e propri cantieri per ragionamenti ancora oggi per niente scontati nel dibattito pubblico. Cesare Beccaria costruisce grandiosamente un modello razionale di garanzie, di limiti imposti al potere pubblico a protezione dei diritti fondamentali di ogni persona. All’interno di questo sistema dai contorni geometrici, esplode lo spazio per la libertà, per la vita, per la dignità umana. Sono queste che il diritto deve proteggere. E deve farlo senza mai abusare del suo dovere di protezione, senza espandersi al di là dello spazio minimo necessario a svolgere il proprio ruolo. Il diritto penale deve assicurare, da un lato, efficacia nella tutela della sicurezza dei cittadini e, dall’altro, rispetto delle garanzie individuali. Ogni proibizione e ogni pena che non sia assolutamente necessaria di fronte a questo duplice scopo, afferma Beccaria, è illegittima. Una rivoluzione non solo giuridica ma anche culturale e politica, che mette in discussione la supremazia dello Stato rispetto ai diritti del singolo individuo. Il modello penalistico garantista di Beccaria si muove su diversi livelli. È una teoria filosofico-giuridica fondata su principi inderogabili, ma è anche una visione politica capace ad esempio di ragionare attorno alla prevenzione dei crimini e alla sua dimensione sociale, educativa, culturale. Non è certo alla sola repressione penale che possiamo affidarci per costruire una società migliore. Ogni capitolo del volume apre un dialogo fitto e ramificato con l’autore, in uno scambio di vedute che ci modifica le prospettive e ci interroga sulla realtà che è attorno a noi. Sono proprio questo dialogo e questa interrogazione che abbiamo voluto esplicitare nel nostro commento al testo».

Stato e cittadini

Ludwig Gumplowicz (1838-1909), Il concetto sociologico dello Stato.

Richiamo all’introduzione del testo. Secondo Gumplowicz, considerato uno dei padri fondatori della sociologia, lo Stato nasce dall’assoggettamento di un gruppo sociale da parte di un altro gruppo, con la conseguenza che lo Stato altro non è la somma delle istituzioni che hanno per scopo il dominio degli uni sugli altri. Un dominio che – essendo esercitato da una minoranza su una maggioranza – per sua natura è sempre instabile. Il diritto interno ad uno Stato è dunque la risultante dei rapporti di forza tra i gruppi contrapposti, ovvero è il risultato di una continua lotta per il potere tra diversi gruppi sociali (teoria conflittuale o sociologia conflittualista).

Il punto centrale di Gumplowicz risiede proprio nello studio rigorosamente realistico del potere politico, e dunque del concetto di Stato come strumento della nazione o della razza, dove il diritto è frutto del conflitto tra gruppi al punto che quando una maggioranza assoggetta una minoranza si genera instabilità. Perciò, è la negoziazione continua tra maggioranza e minoranza che permette di mantenere saldo il dominio dello Stato.

Ebbene, aggiungo: il concetto di mantenere saldo il “dominio” dello Stato, somiglia a qualcosa di verso opposto rispetto al perseguimento dell’interesse collettivo? E se tale assunto fosse l’alibi, nemmeno tanto velato, per tutelare i soli interessi delle caste? E da quest’ultimo punto di vista, possono esserne un esempio talune scelte liberticide accondiscese anche dalle minoranze?

Spesso si ha la sensazione – chiedo scusa ai lettori se mi permetto prendere spunto da Platone – che chi detiene il potere cerca semplicemente di accrescerlo favorendo i propri amici, come se l’agire politico obbedisce sempre ad interessi personali, con la conseguenza che è inutile, o almeno ipocrita, cercare di cambiare la situazione.

Tuttavia, e concludo, resto dell’assoluta convinzione che il malaffare vada sempre denunziato.

La fede scomparsa

Janine Di Giovanni, La fede scomparsa. Il tramonto del Cristianesimo nella terra dei profeti.

Il Cristianesimo è nato, si è sviluppato ed affermato in Medio Oriente. Oggi, però, in molti paesi di quell’area le comunità cristiane sono quotidianamente minacciate ed il rischio che si estinguano è reale. I fedeli diminuiscono sempre più, costretti a fuggire dalle terre dove camminarono a lungo i loro profeti, dove predicò Gesù e dove i grandi padri della Chiesa stabilirono le norme dottrinali che vivono ancora oggi. Dalla Siria all’Egitto, dal nord dell’Iraq alla Striscia di Gaza, antiche comunità, luoghi di nascita di santi e profeti, stanno perdendo ogni legame con la religione che è sempre stata un tratto così caratteristico della loro vita sociale e culturale. In questo libro d’inchiesta giornalistica l’autrice si è messa sulle tracce delle ultime comunità cristiane dove ancora oggi sopravvivono i più antichi rituali della religione cristiana, portando il lettore fin dentro le case degli ultimi cristiani del Medio Oriente, prima che delle loro vite e tradizioni non resti più memoria.

Ebbene, in via più generale, aggiungo e concludo con alcune domande e riflessioni: nell’epoca dei consumi, della tecnologia e della discussa o discutibile intelligenza artificiale, trova ancora spazio la religione? E se sì, dove e come si colloca su una scala di valori? Ed inoltre: in che modo, e fino a che punto, la fede religiosa influenza le emozioni orientandone i comportamenti in maniera più o meno razionale? E se invece fosse proprio la religione il rifugio ideale dalle paure e minacce artatamente veicolate ed insinuate nell’immaginario collettivo?

Le masse popolari

George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, il Mulino.

In questo testo, ormai un classico, l’autore ha inteso scoprire le radici lontane del nazismo e misurare quanto esse hanno giocato sulla politica e l’organizzazione di massa dei regimi fascisti. I fenomeni di irreggimentazione così evidenti nella Germania hitleriana portano all’estremo un tipo di politica nei confronti delle masse che viene messo in atto a partire dall’Ottocento, con una “estetizzazione” della politica, una ritualità (i monumenti, le feste, le cerimonie), una organizzazione che coinvolgono le masse popolari nei valori e negli ideali borghesi e nazionali, in altri termini, le “nazionalizzano”.

Una “nuova politica”, quindi, ovvero quella “dei grandi numeri”, intesa come una politica che aveva bisogno di coinvolgere il maggior numero di persone ed in prospettiva le “masse”, alle quali andavano spiegate le nuove idee. Ma questa politica era “nuova” anche per un altro motivo, vale a dire che il suo “spiegare” la nazione non faceva appello alla ragione degli illuministi, alla solida cultura, alla indagine lucida e distaccata, del resto come avrebbe potuto essere altrimenti se si volevano coinvolgere nel discorso politico anche persone analfabete o semianalfabete? E come avrebbe potuto essere altrimenti se si voleva diffondere un discorso politico altamente innovativo e radicalmente eversivo degli assetti politici dominanti? Fu così che leader ed intellettuali fecero appello all’emozione, piuttosto che alla ragione; oppure al cuore, piuttosto che al cervello.

Ebbene, per altri versi, aggiungo, fu così ed è ancora così, ne sono prova inconfutabile i grandi temi attuali, volutamente artefatti attraverso strumenti e metodi che vanno a far leva sulla psiche delle persone, perlopiù di quelle scarsamente lungimiranti oppure discutibilmente attente.

La ricerca in sociologia

John Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia, Bologna, il Mulino.

«Quando una scienza ha raggiunto la maturità possiede metodi elaborati e sistematici per la raccolta dei dati, strumenti analitici efficaci e un appropriato corredo concettuale. In una certa misura tutti questi strumenti sono ora disponibili, mentre dietro di essi si sta delineando una teoria sistematica, indispensabile a guidare la comprensione e l’azione. Il disegno completo di questa teoria ci sfugge ancora; tuttavia è certo che oggi il corredo concettuale capace di inquadrare ogni nuovo problema viene continuamente perfezionato da ogni nuova esperienza.

Come ogni scienza nuova, la sociologia ha dedicato e continua a dedicare gran parte delle sue energie allo studio descrittivo. Parte del materiale raccolto possiede una immediata utilità pratica e ci aiuta a comprendere meglio la realtà sociale in tutte le sue complesse ramificazioni. Questa è la funzione di una “storia naturale” della sociologia; prescindendo dal suo valore intrinseco, essa rappresenta una fase necessaria alla creazione di un nuovo linguaggio e alla elaborazione di tecniche d’indagine sempre più perfette.

Per quanto esatti e completi possano essere i dati raccolti nelle singole ricerche il loro valore rimane frammentario fino a quando non possono essere integrati con altri risultati descrittivi. E non si tratta soltanto di raccogliere informazioni comparabili riguardanti i dati raccolti; ciò che occorre a tutti i livelli è la formulazione e la verifica di ipotesi significative. Il valore della sociologia risiede soprattutto nell’accumulazione di idee che possono essere provate ed applicate, e non soltanto nella semplice raccolta di dati di fatto».

Estorsione di lieve entità

Relativamente all’ordinanza del 20 giugno 2022, con la quale il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629 del codice penale, «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita in misura non eccedente i due terzi quando il fatto risulti di lieve entità», e, in via subordinata, «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita quando il fatto risulti di lieve entità». Nonché, all’ordinanza del 18 luglio 2022, con la quale il Tribunale ordinario di Roma, sezione ottava penale, in composizione collegiale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629, primo e secondo comma, cod. pen., «nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»; la Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità; e dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi quando il fatto risulti di lieve entità, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, Sentenza 120/2023).

Permesso di soggiorno

A proposito di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, già rilasciato per motivi di lavoro subordinato, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, richiamando precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha ribadito il concetto secondo cui «la evasione fiscale e contributiva, in conformità con il principio di legalità, non può essere una ragione, neanche indiretta, di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto il legislatore non ha previsto che la evasione fiscale sia causa ostativa, in se stessa considerata, per cui una eventuale situazione di evasione in capo all’immigrato, regolarmente accertata, deve essere oggetto di provvedimenti tipici, adottati dai organi competenti dell’Amministrazione fiscale e dagli enti previdenziali, diretti al contrasto all’evasione mediante sia il recupero del credito sia la sanzione dell’inosservanza della fiscale e tributaria».

A maggior ragione nel caso in esame, laddove, peraltro, «non risulta alcuna evasione fiscale, né è stato previamente accertato se in effetti nel corso degli anni sussistesse un obbligo di effettuare la dichiarazione dei redditi, se non ricorressero cioè, pur in presenza di un ipotetico reddito, fattispecie di esenzione dal suddetto obbligo» (CGARS, Sentenza 379/2023).

Diritto al silenzio

Ritenuto, che il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.»; ed in via subordinata, il medesimo Tribunale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale»; nonché, dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere»; la Corte Costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale; nonché, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni; ed inoltre, ha dichiarato non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, Sentenza 111/2023).

Opere abusive

Dal punto di vista della tassatività dell’impianto normativo, anche una modesta "casetta" per bambini, realizzata in legno e posta su di un albero, presuppone l’ottenimento del titolo amministrativo che ne autorizzi l’installazione. Infatti, si legge nel provvedimento giurisdizionale qui in esame, con richiamo all’assunto del procedimento di vigilanza edilizia, se da un lato il manufatto in questione non è riconducibile all’edilizia libera, né all’ipotesi dell’attrezzatura ludica, dall’altro lato si precisa che sono considerate nuove costruzioni «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee».

Rilevando, ad abundantiam, che per stessa ammissione del ricorrente l’opera realizzata è stata posta in essere «senza l’ausilio di nessun tipo di fondazione se non quella del tronco della palma, il cui ancoraggio al suolo non è sicuro, specie nel caso in esame trattandosi di una pianta morta e quindi soggetta all’inevitabile deperimento del suo apparato radicale, circostanza che rende il manufatto, oltre che abusivo, anche pericoloso sotto il profilo statico per i suoi fruitori», vale dire prevalentemente dei bambini (TAR Liguria, Sent. 507/2023).


Libertà vigilata e risocializzazione

Quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale, la libertà vigilata è da considerare una misura alternativa alla detenzione, ed in quanto tale concorre alla risocializzazione del reo. Su questi presupposti, la libertà vigilata non è né una misura di sicurezza, né una sanzione aggiuntiva, bensì è la prosecuzione, evidentemente in forma meno afflittiva, della pena già irrogata in origine. Infatti, la liberazione condizionale e la libertà vigilata costituiscono, unitamente considerate, una vera e propria misura alternativa alla detenzione.

La libertà vigilata è dunque una sorta di prova in regime di libertà, finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società, ciò anche in considerazione del fatto che la stessa ammissione alla liberazione condizionale anticipa in qualche modo la definitiva estinzione della pena una volta che ne siano decorsi i tempi della sua durata.

Nel caso del condannato all’ergastolo, il cui accesso alla libertà condizionale è consentito solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata fissa e prestabilita, misura accompagnata da prescrizioni ed obblighi definiti dalla magistratura di sorveglianza sul presupposto del caso concreto e del principio costituzionalmente orientato di rieducazione e risocializzazione.

Sicché, se oramai è pacifico che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, allora ciò comporta che tale concetto «non si applica alle sole pene in senso stretto», ma «che, anzi, il principio da esso espresso si irradia su ogni aspetto e momento del percorso trattamentale», e che «proprio le ragioni qui particolarmente sottolineate indicano che il regime in questione può e deve essere rivolto nella direzione della finalità espressa dalla disposizione costituzionale ora in questione».

Del resto, se da un lato è vero che «con l’introduzione del sistema dei benefici penitenziari si può ora valutare progressivamente, ben prima dell’accesso alla liberazione condizionale, il grado di adesione del condannato al percorso rieducativo propostogli», dall’altro lato, è «altrettanto vero che la liberazione condizionale resta, tra le modalità alternative alla detenzione in carcere, quella che dischiude i maggiori spazi di libertà per il condannato, spazi che, da una parte, consentono il più completo reinserimento nel consorzio civile e giustificano, dall’altra, anche in ragione della possibile estinzione della pena, gli opportuni controlli».

Con ciò, la Consulta ha dichiarato «non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze» (Sent. 66/2023).

Licenziare per scarso rendimento

Atteso che il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento presuppone la dimostrazione di un notevole inadempimento da parte del medesimo, nel caso qui in esame, il giudice dell’opposizione, dapprima operava la conversione del recesso per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore per scarso rendimento, per poi – esclusa ogni ipotesi di ritorsione del recesso datoriale – giungere alla conclusione che, pur essendo stato l’inadempimento del lavoratore limitato nel tempo, l’intensità si era rivelata talmente notevole al punto da comportare – insieme alla mancanza di elementi obiettivi che giustificassero la riduzione dell’attività – la condivisibilità circa la valutazione operata nella sentenza reclamata.

Ebbene, avverso tale decisione, l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, ma i giudici di legittimità, richiamando pregressa giurisprudenza, hanno ribadito il principio secondo cui nel «licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - cui spetta l’onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione».

Infatti, nel caso di specie, la decisione impugnata ha dato conto della contestazione al lavoratore condividendo l’accertamento compiuto dal primo giudice, «rilevando che il ricorrente aveva reso una prestazione lavorativa insufficiente per l’esiguità» dei clienti visitati. Sicché, circa lo specifico profilo di accertamento della gravità dell’inadempimento, il «licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento».

Pertanto, è sempre legittimo il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento «qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione» (Cass. Sez. Lav. Ord. 9453/23).

Incapacità dell’imputato

Con riferimento alla sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che il giudice dichiari non doversi procedere nei confronti dell’imputato, anche nei casi in cui la sua irreversibile incapacità di partecipare coscientemente al processo discenda da patologie fisiche e non mentali», ed in via subordinata, dell’art. 159 c.p., sempre per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che la sospensione del decorso della prescrizione, nel caso in cui dipenda da sospensione del processo per impossibilità di procedere in assenza dell’imputato, non operi anche nelle ipotesi in cui tale sospensione sia imposta dall’impossibilità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo»; la Corte Costituzionale, con la sentenza oggi in esame, si è così pronunciata.

Premesso, che il Tribunale rimettente riferisce che nel giudizio principale è imputata una persona affetta da SLA, malattia che ne ha progressivamente determinato la paralisi con incapacità di parlare e di respirare in autonomia, e che, dunque, l’impossibilità di pronunciare la sentenza di improcedibilità ex art. 72-bis c.p.p. in ragione della natura fisica e non mentale dell’infermità si risolverebbe in un’irragionevole disparità di trattamento, nonché – considerata l’effettività del diritto all’autodifesa –, per partecipazione cosciente al processo «non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui», ma «comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa»; ne consegue che il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato, intesa con l’aggettivo “mentale”, determina un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato che non può «esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa» le facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione».

Per tali motivi, è costituzionalmente illegittimo l’art. 72-bis c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; parimenti, costituzionalmente illegittimi sono l’art. 70 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché «psicofisica»; l’art. 71 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; l’art. 72 c.1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché «psicofisico» e comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico». Sicché, l’accoglimento della questione principale comporta l’assorbimento di quella subordinata (Corte Costituzionale, Sent. 65/2023).

Responsabilità genitoriale

Con ricorso e motivi aggiunti depositati in atti, (omissis), esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore, hanno impugnato dinnanzi il Tribunale Amministrativo Regionale i provvedimenti disciplinari emessi nei confronti del medesimo figlio, in particolare con riguardo all’allontanamento dalla comunità scolastica fino al termine dell’anno scolastico, nonché esclusione dello scrutinio finale, irrogati in conseguenza dei gravi atti commessi nei confronti di un compagno di scuola.

Secondo i ricorrenti, il figlio, prima dell’episodio contestato, ha sempre tenuto un comportamento corretto sia a scuola che fuori dall’ambiente scolastico, e che quindi nella vicenda che ha «originato i provvedimenti impugnati lo stesso minore avrebbe agito sotto l’influenza negativa di un compagno di scuola fortemente problematico e con trascorsi disciplinari, nei cui confronti era diffuso un senso di sudditanza psicologica, e che la condotta del proprio congiunto sarebbe stata di minore gravità rispetto a quella del compagno di scuola».

Ebbene, atteso che sul sito internet istituzionale della scuola risulta pubblicato sia il “Regolamento di Istituto”, sia le “Norme generali di comportamento” con l’individuazione delle sanzioni irrogabili nell’eventualità della loro trasgressione, nel caso di specie il provvedimento di allontanamento (espulsione) risulta comunque essere stato adottato dopo aver sentito le argomentazioni difensive addotte dallo studente alla presenza del padre, il quale ammetteva di aver commesso il grave fatto contestato così come riferito da un educatore scolastico.

Sicché, ravvisata la commissione di fatti astrattamente configurabili come reato e lesivi della dignità della persona umana (violenza privata o sessuale), con valutazione che non appare viziata da profili di irragionevolezza, anche in considerazione del pericolo di reiterazione delle condotte nei confronti degli altri studenti, discende l’infondatezza delle argomentazioni difensive con conseguente legittimità della sanzione dell’allontanamento del minore fino alla fine dell’anno scolastico ed accompagnata dall’esclusione dallo scrutinio finale. E dunque «tenuto conto della gravità dei fatti contestati al ricorrente, e da quest’ultimo ammessi, non si ravvisano i profili di eccesso di potere denunziati dal ricorrente, né può fondatamente ritenersi che il provvedimento sia illegittimo per mancata ammissione dell’incolpato alla conversione della sanzione in attività in favore della comunità scolastica». Inoltre, i motivi aggiunti prodotti dalla difesa, non trovano accoglimento nel merito «in considerazione della valutazione riportata dal ricorrente con riguardo alla condotta, che da sola giustifica la non ammissione all’anno successivo».

In conclusione, il ricorso è stato respinto ed i motivi aggiunti dichiarati improcedibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite oltre oneri ed accessori di legge (TAR Umbria, Sent. 90/23).

Immigrazione clandestina

Tornando al tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il Tribunale ordinario sollevò questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12 c. 3, lett. d), D.Lgs. 286/98 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «limitatamente alle fattispecie di impiego di servizi internazionali di trasporto o di documenti falsi o illegalmente ottenuti, nella parte in cui prevede l’aggravamento di pena rispetto all’ipotesi semplice», ciò in riferimento al principio di uguaglianza-ragionevolezza e di proporzionalità della sanzione penale di cui agli artt. 3 e 27 c.3 Cost.

Il caso in esame riguardava l’accertamento di responsabilità penale in capo ad una donna imputata per avere accompagnato in Italia - su un aereo di linea utilizzando passaporti falsi - due bambine infraquattordicenni le quali, secondo le relazioni delle assistenti sociali, risulterebbero essere rispettivamente sua figlia e sua nipote.

Ebbene, il punto centrale delle questioni di legittimità costituzionale sollevate riguarda la manifesta irragionevolezza dell’aumento della pena detentiva (nei termini di una quintuplicazione del minimo, che passa da uno a cinque anni, e di una triplicazione del massimo, che passa da cinque a quindici anni) stabilita per le due ipotesi aggravate all’esame, rispetto a quella prevista per la fattispecie base, e tale manifesta irragionevolezza si tradurrebbe in una pena manifestamente sproporzionata sia rispetto alla intrinseca gravità della tipologia di fatti sanzionati, sia alla pena prevista, appunto, per la fattispecie base di reato.

Inoltre, con riguardo alla previsione di una pena minima di cinque anni e di una massima di quindici anni di reclusione per un fatto ordinariamente punibile con la reclusione da uno a cinque anni, solo in ragione dell’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o anche soltanto illecitamente ottenuti, presenta tratti di assoluta anomalia “intrasistematica” rispetto alle scelte sanzionatorie tanto del codice penale, quanto della legislazione di settore. Ed una simile anomalia non può che tradursi in una valutazione di manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi aggravata all’esame.

Di conseguenza, fermo restando il possibile concorso con gli eventuali reati di falsità documentale che dovessero in ipotesi ravvisarsi nei singoli casi, la disposizione in esame è stata dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti» (cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 63/22).

Donne e carcere

Roma, Senato della Repubblica, mercoledì 8 marzo 2023 - L’Associazione Antigone ha presentato il primo rapporto sulle donne in carcere. “Con il nostro Rapporto abbiamo voluto innanzitutto accendere un faro su questo tema troppo spesso in ombra. Nei mesi scorsi abbiamo visitato tutte le carceri femminili, le sezioni femminili ospitate in carceri maschili, le carceri e sezioni femminili minorili, le sezioni per donne detenute trans in carceri maschili. Raccontiamo questi luoghi uno a uno, per far emergere uno spaccato di vita che non può ridursi, nelle sue peculiarità socio-giuridiche e nei suoi bisogni specifici, al carcere maschile”. Registrazione Radio Radicale.


Giustizia e Società

Palermo - Commemorazione del Giudice Alfonso Giordano. Evento organizzato da “Rotary Club Palermo Monreale”. Registrazione video di Radio Radicale. «Il Giudice Alfonso Giordano che, pur essendo un magistrato civilista, ebbe il coraggio di iniziare il 10 febbraio 1986 e portare avanti il maxiprocesso, nei confronti di 460 imputati affiliati alle cosche mafiose. Sono intervenuti: Antonio Balsamo (presidente del Tribunale di Palermo), Serafina Buarnè (presidente Rotary Club Palermo Monreale), Giuseppe Pantaleo (avvocato), Luciano Marino (sindaco di Lercara Friddi), Stefano Giordano (avvocato, figlio del presidente Alfonso Giordano), Giuseppe Ayala (già magistrato e parlamentare), Alberto Polizzi (penalista del Foro di Palermo), Santi Consolo (magistrato, già capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria)».

Il tanto evocato 41-bis

L’argomento oggi in esame è tutt’altro che irrilevante, specie se si tiene conto del dibattito pubblico che nelle ultime settimane sta scuotendo la politica e non solo. Ebbene, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi circa la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario «nella parte in cui assegna all’autorità ministeriale, e non a quella giudiziaria, la competenza ad emettere una misura che, per natura giuridica e finalità, oltre che per l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità e dottrinale, rientra nel novero delle misure di prevenzione personali»; sicché, prosegue la doglianza difensiva avverso la decisione del Tribunale di Sorveglianza: «l’applicazione della misura di prevenzione spetta all’Autorità giudiziaria e non al Ministro espressione del potere politico». Ma non è così per i giudici di legittimità.

Infatti, richiamando giurisprudenza pregressa, è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata allorché sono individuabili plurimi profili di «differenza strutturale tra l’istituto di cui all’art. 41-bis e la misura di prevenzione in senso stretto». Infatti, l’art. 41-bis ord. penit. «postula la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che la perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui egli appartiene». Con la specifica previsione che «le misure di prevenzione vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi sia ritenuto pericoloso in dipendenza, non necessariamente di condanne o di misure cautelari, ma dello stile di vita. Anche negli effetti va osservato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che manifestino capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive all’esterno del carcere. Ciò comporta una limitazione dei diritti soggettivi, non già la loro radicale privazione».

Tant’è, sulla scorta di tali presupposti, «il regime detentivo differenziato non viene imposto in via automatica a tutti i detenuti che abbiano riportato condanna per determinati titoli di reato, ma selettivamente a coloro di essi che presentino caratteristiche personali e specifiche di pericolosità, legate alla loro appartenenza ad organizzazioni criminali strutturate, distinguendoli dai comuni soggetti sottoposti a pena detentiva». Perciò è da escludersi una «disparità di trattamento, rispetto al sistema delle misure di prevenzione, sotto il profilo dell’adozione del provvedimento impositivo di tale regime o della sua proroga da parte dell’autorità amministrativa, anziché per decisione giudiziale come, invece, previsto per le misure di prevenzione» (Cass. I Pen. Sent. 5363/23).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 02E23 del 15/02/2023

Discorso all’Umanità

In molti, oggi, “Giornata della Memoria”, hanno voluto ricordare il “Discorso all’Umanità” – a mio avviso attualissimo – pronunciato da Charlie Chaplin nella parte finale del film “Il Grande Dittatore”. Discorso, che di seguito credo opportuno riproporre. «Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale. L’unione dell’umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone. Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l’avidità che ci comanda è soltanto un male passeggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore. Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: “Il Regno di Dio è nel cuore dell’Uomo”. Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera. Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!».

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 02A23 del 27/01/2023

Detenzione e colloqui intimi

Il presente contributo riguarda alcuni passaggi della recente ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto (PG), il quale, sospendendo un procedimento in corso, ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale dichiarando «rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 ord. penit. nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13 co. 1 e 4, 27 co. 3, 29, 30, 31, 32 e 117 co. 1 Cost, quest’ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

In effetti, il detenuto si duole circa le conseguenze negative che sta avendo il suo rapporto di coppia con la compagna in assenza di intimità, anche in previsione del proprio futuro reinserimento sociale, nonché rispetto all’impossibilità di fruire di permessi premio previsti in suo favore e che dunque un colloquio intimo costituirebbe «l’unico strumento per esercitare il proprio diritto, un diritto che considera fondamentale, ad una serena relazione di coppia e ad assicurargli a pieno un ruolo genitoriale».

Ebbene, il Magistrato di Sorveglianza sostiene che «a venire in rilievo appare innanzitutto il diritto alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell’art. 2 Cost.», trattandosi appunto di un diritto cosi qualificato dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, per cui «non si dovrebbe essere privati, contrariamente a quanto invece accade, a fronte della proibizione normativa qui oggetto di perplessità costituzionale, anche nel contesto penitenziario (...), dove invece sono inibiti i rapporti sessuali delle persone detenute con il/la partner in libertà. Il carcere è d’altra parte certamente una formazione sociale in cui si svolge la personalità dei detenuti. Ciò non può che condurre ad interdire una completa inibizione dell’esercizio della affettività nella forma del rapporto sessuale con la persona convivente in libertà, che si realizza mediante una assoluta rinuncia da parte della legge a tentare ogni possibile bilanciamento con le eventuali ragioni di sicurezza che possano in taluni casi rivelarvisi ostative». Sicché, in tale modo, prosegue il magistrato, richiamando l’orientamento dei giudici delle leggi (Corte Cost. Sent. 349/1993 e Sent. 136/2018), «si finisce per compromettere nei confronti della persona detenuta un residuo spazio di libertà “tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”» (Ordinanza depositata il 12.01.2023).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 01E23 del 23/01/2023

Stranieri e permesso di soggiorno

L’odierna vicenda riguarda il decreto emesso dal Questore relativamente al rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno avanzata da un cittadino straniero residente nel nostro Paese ed impiegato con contratto di lavoro subordinato. In effetti, il diniego è stato motivato sulla base della condanna in ordine al reato di atti persecutori dal soggetto commessi in danno di una connazionale con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale, nonché in danno della figlia di lei. Fatti, a cui è seguito l’arresto in flagranza per ulteriori e reiterati episodi delittuosi nei confronti delle medesime persone offese. Su tali presupposti, la difesa del soggetto ha tentato di opporsi al rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno sostenendo che il «provvedimento impugnato non avrebbe operato un corretto bilanciamento degli interessi in gioco», cioè tutela della famiglia ed il diritto di continuare ad esercitare l’attività lavorativa, oltre che proseguire le terapie mediche presso il distretto sanitario territoriale di residenza. A tale proposito, la difesa ha richiamato l’orientamento della Corte Costituzionale la quale «avrebbe chiarito che il permesso di soggiorno non può essere negato automaticamente in ragione della condanna subita dallo straniero per determinati reati», contrariamente, quindi, alla decisione della Questura che invece «si sarebbe limitata a richiamare la sentenza penale di condanna patita dal ricorrente senza tenere conto di elementi indicativi di segno contrario, quali, ad esempio, la sospensione condizionale della pena e la successiva sospensione degli effetti del decreto prefettizio di espulsione emesso a suo carico».

Ebbene, brevemente, chiosano i giudici amministrativi, «le esigenze familiari genericamente invocate dal ricorrente non possono che considerarsi recessive a fronte delle condotte violente e pericolose da lui commesse». Infatti, «nel bilanciamento di interessi contrapposti e inconciliabili (...) la scelta operata dalla Questura è frutto di una valutazione di merito la cui irragionevolezza non è stata dimostrata e che, anzi, appare del tutto legittima alla luce dei comportamenti criminosi che il ricorrente (...) ha proseguito anche dopo la prima sentenza di condanna».

Infine, parimenti recessive sono sia «le esigenze lavorative del ricorrente, atteso che la permanenza dello straniero in Italia è subordinata dal legislatore all’assenza di circostanze ostative codificate, che nel caso in esame invece sussistono, ovvero è fatta dipendere dalla presenza di circostanze giustificative quali, appunto, i legami familiari dello straniero in Italia, che invece non sussistono»; sia le sue esigenze di salute, le cui cure possono adeguatamente proseguire in patria. Sicché, in forza di ciò, il ricorso è respinto (TAR Umbria, Sentenza pubblicata il 03/01/2023).

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 01A23 del 16/01/2023