Sovraffollamento e misure alternative

Il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura chiede di fissare un limite al numero di detenuti per ogni carcere ed al contempo di promuovere misure alternative alla detenzione. Ebbene, il 20 aprile 2022 il Presidente del Comitato per la Prevenzione della Tortura ha presentato, in uno scambio di opinioni con i Deputati dei Ministri del Consiglio d’Europa, il Rapporto Generale delle Attività per il 2021. Nel rapporto, il Comitato invita gli Stati europei ad affrontare il problema della detenzione fissando sia una soglia massima rispetto al numero di detenuti per ogni istituto penale (da rispettare rigorosamente), sia aumentando l’uso di misure alternative alla reclusione.

Inoltre, il presidente del Comitato ha sottolineato il fatto che «il sovraffollamento carcerario mina ogni tentativo di dare un significato pratico al divieto della tortura e di altre forme di maltrattamento», mettendo a rischio tutti i detenuti ma in particolare i più vulnerabili, nonché il personale penitenziario, minando ogni sforzo per reintegrare i detenuti stessi nella società. Sicché, i «governi dovrebbero garantire che i detenuti abbiano spazio sufficiente per vivere dignitosamente in prigione e che le misure non detentive siano utilizzate in modo adeguato, assicurando nel contempo che il sistema di giustizia penale fornisca un’adeguata protezione alla società».

Come primo passo, quindi, le amministrazioni penitenziarie dovrebbero effettuare una revisione circa la capacità di ciascuna cella, del carcere stesso e del sistema carcerario nel suo insieme, applicando rigorosamente gli standard suggeriti dal Comitato per la Prevenzione della Tortura relativi allo spazio abitativo minimo per ciascun detenuto, vale a dire di almeno quattro metri quadrati di superficie abitabile in celle condivise e di sei metri quadrati in celle singole (esclusi gli annessi sanitari). Ma anche un limite massimo assoluto per il numero di detenuti per ciascuna casa di reclusione.

Infine, il Comitato per la Prevenzione della Tortura raccomanda un maggiore uso di misure alternative alla restrizione in carcere, come per esempio i servizi alla comunità, con sistemi di monitoraggio elettronico, integrati da libertà vigilata e programmi di riabilitazione. Infatti, secondo il Comitato, il ricorso a misure non detentive appare modesto in molti Stati, in particolare nella fase preliminare, e non riduce sufficientemente il numero delle persone ristrette.

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 08E22 del 27/04/2022

Condizioni della detenzione

Tenuto conto dei più recenti orientamenti giurisprudenziali, è corretta la decisione del Tribunale di sorveglianza che ha concesso il ristoro – in termini di una riduzione di pena – ad un detenuto, attribuendo rilevanza decisiva all’accoglimento della di lui istanza nella quale lamentava la presenza nella stanza detentiva di un WC separato dal resto dello spazio a sua disposizione – necessario per l’espletamento delle funzioni di vita quotidiana – solo da un muro alto un metro e mezzo, quindi, non sufficiente ad evitare che l’utilizzo avvenisse alla vista di terze persone così da salvaguardarne la ragionevole riservatezza.

Tale decisione è scaturita anche dalla carenza di informazioni richieste all’Amministrazione penitenziaria la quale si era dichiarata impossibilitata a fornirle per assenza della relativa documentazione. Pertanto, il Tribunale di sorveglianza ha considerato fondate le allegazioni prodotte dal detenuto, peraltro riscontrate dall’accertamento del magistrato di sorveglianza relativo ad un periodo di detenzione sovrapponibile.

In estrema sintesi, sulla base del disposto di cui l’art. 35-ter Ord. penit. (Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati), le «allegazioni dell’istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata, e riscontrata sotto il profilo dell’esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull’Amministrazione penitenziaria l’onere di fornire idonei elementi di valutazione di segno contrario».

Perciò, il provvedimento del Tribunale di sorveglianza ha fornito una «giustificazione sul punto attinto dalle censure, osservando che la presenza del WC all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente» (Cass. Pen., sez. I, Sent. 13660/22).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 07E22 del 19/04/2022

Tra passato e distopie del presente

In questo contributo torno a citare Piero Calamandrei (1889-1956), ma non solo, giurista e politico italiano tra gli artefici della Carta Costituzionale, quel nobile testo alla base del nostro ordinamento giuridico. La Costituzione, appunto, a volte bistrattata, vilipesa, financo derisa, a mio modesto modo di vedere, da chi non ha nulla a che fare col senso dello Stato, ma che per una serie di intrighi ed altrettante discutibili combinazioni si ritrova perfino a decidere sulle modalità di vita e financo di morte delle persone. Soggetti impunemente disonesti dediti esclusivamente a perseguire biechi interessi personalistici e sodali, tantoché, sempre a mio mesto avviso, la teoria di familismo amorale elaborata da Edward C. Banfield (1916-1999), in seguito ripresa ed approfondita da Robert D. Putnam, sembra poca cosa al confronto.

Familismo amorale, vale a dire quella spiccata incapacità di agire in favore del bene collettivo dove invece prevale su di esso l’interesse materiale personale e della famiglia di appartenenza: «In una società di familisti amorali, nessuno perseguirà l’interesse di gruppo, a meno che non ci sia un suo tornaconto personale» (cfr. E.C. Banfield, 1961).

Ma facciamo qualche passo indietro, appena un secolo prima del testo di Banfield, precisamente al 1861, quando Massimo D’Azeglio (1798-1866) ebbe a dire, così riferiscono i testi (cfr. R. Vivarelli, 2004): «Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani», come ad evidenziare, mi permetto di chiosare, la necessità di pensare a persone migliori, ovverosia educare loro al principio di responsabilità ed onestà nell’esclusivo interesse collettivo, specie tra quelle che ambiscono a cariche pubbliche.

Ebbene, se da un lato la nascita dello Stato italiano segnava non tanto un punto d’arrivo bensì un punto di partenza di un lungo cammino che portasse gli italiani in direzione della più avanzata civiltà europea; dall’altro, la redazione di un testo costituzionale non doveva essere inteso solo come una degna risposta ai regimi totalitari del noto ventennio che condussero al secondo conflitto mondiale, ma doveva essere soprattutto una linea indelebile da seguire per i secoli avvenire all’indirizzo del rispetto e salvaguardia dei diritti inalienabili dell’individuo.

Senso dello Stato? Dignità umana? Morale? Forse di “questione morale” pare ancora attuale quella rappresentata da Enrico Berlinguer (1922-1984) in una intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, pubblicata da “La Repubblica” il 28 luglio 1981: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude».

Ed ancora, rileggendo Calamandrei, quando il 4 marzo 1947, nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente, impegnata nei lavori preparatori della Carta costituzionale, rivolto ai colleghi disse: «Nel discutere di questi argomenti io ho sempre sostenuto che, per preparare il testo di una nuova costituzione democratica, sia più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza (...) di quella che potrà essere domani la minoranza, in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere domani i diritti di questa minoranza. Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani».

A seguire: «Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte. Io mi domando come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno, di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli».

Ebbene, proprio con il concetto di tradimento chiuse il discorso Calamandrei, proprio quel tradimento che oggi caratterizza taluni affaristi senza scrupoli i quali auspicano che il nostro Paese arretri di anni, meglio se di secoli.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 06A22 del 18/04/2022