Il giudizio sul percorso rieducativo

Il giudizio sul percorso rieducativo rispetto alla valutazione positiva del periodo di carcerazione del condannato deve tenete debitamente conto dei nuovi delitti eventualmente consumati. Infatti, gli illeciti commessi successivamente ai semestri di riferimento per i quali si propone istanza per ottenere la liberazione anticipata, incidono circa il giudizio sul percorso rieducativo, determinando quindi il diniego del beneficio richiesto.

Nel caso oggi proposto, il Tribunale di sorveglianza, confermando la decisione di primo grado, rigettava la istanza del condannato finalizzata ad ottenere la liberazione anticipata sul presupposto che «il comportamento del condannato, posto in essere dopo il ritorno in libertà, quando venga considerato quale espressione di una non effettiva partecipazione alla precedente opera di rieducazione, può giustificare retroattivamente il diniego del beneficio in relazione alla detenzione in espiazione». Inoltre: «deve notarsi, con riferimento al caso concreto in esame, che, come sopra anticipato, le censure formulate nell’atto di ricorso sono infondate. La decisione del Tribunale di sorveglianza è rispettosa dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in materia. È chiara e pienamente ragionevole la motivazione dell’ordinanza, che nota circostanze specificamente valorizzate per giustificare il diniego del beneficio, implicitamente ricavando da esse che il (condannato, ndr) non ha dimostrato di aver partecipato all’opera di rieducazione. In particolare, è assorbente rilevare, a parte ogni considerazione sugli altri argomenti espressi nell’ordinanza, che essa pone in luce che (l’interessato, ndr) è stato condannato per reati, anche gravi».

In sintesi: «lo sviluppo argomentativo della motivazione posta a sostegno dell’ordinanza impugnata, esauriente e immune da vizi logici e giuridici, risulta basato su una coerente analisi critica degli elementi disponibili e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo. Detta motivazione, quindi, supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato deve arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento delle circostanze fattuali».

Sicché, dalle argomentazioni suesposte, ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cassazione, Prima Sezione penale, Sentenza 41358/2021, circa il giudizio sul percorso rieducativo rispetto alla valutazione positiva del periodo di carcerazione).

Criminologia Penitenziaria (ISSN 2704-9094 Online). Numero 15E21 del 25/11/2021

L’articolo 4 della Costituzione

L’articolo 4 della Costituzione è tanto importante, quanto, spesso, sottostimato o addirittura ignorato. Vedasi, per esempio, specie negli ultimi tempi, come nei caotici talk show (taluni dalla discutibile utilità sociale) sono trattati argomenti afferenti a reali o presunte violazioni della Costituzione, in particolare del suo primo articolo, dove si legge che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ebbene, l’articolo 4 della Costituzione, invece, nella sua prima parte stabilisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Così formulato, dalla norma sembra potersi ricavare che se da un lato tale diritto non conferisce al cittadino la pretesa di ottenere un posto di lavoro, dall’altro pare altresì vero che lo Stato non dovrebbe porre in atto alcuna misura che impedisca, anche parzialmente, il pieno ed effettivo soddisfacimento dell’inviolabile diritto a poter lavorare. Qualsiasi siano le ragioni che lo dovessero determinare. Sicché, ecco che il dettato normativo appena richiamato sollecita i pubblici poteri alla creazione delle condizioni economiche, sociali e, non da ultimo, giuridiche, che garantiscano il lavoro a tutti i consociati, attraverso l’attuazione di politiche volte proprio al raggiungimento di una ragionevole piena occupazione.

Perciò, il diritto al lavoro è prima di tutto un diritto di libertà, il quale si concretizza anche nella possibilità di scegliere la propria attività lavorativa. Ma non è tutto, infatti, il diritto al lavoro e dunque all’esercizio di una professione o attività liberamente scelta trova idonea tutela anche a livello sovranazionale, dove l’articolo 15 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Libertà professionale e diritto di lavorare) stabilisce che: “Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”.

Ma a questo punto nasce l’esigenza di porsi almeno un paio di domande: il lavoro, è o no lo strumento attraverso il quale i consociati si procurano i mezzi per il sostentamento personale e delle rispettive famiglie? Ed ancora: il diritto al lavoro, rappresenta o no il presupposto alla base del quale può materialmente attuarsi l’esercizio di ogni altro diritto costituzionalmente garantito?

Orbene, se le risposte dovessero essere affermative, come ritengo lo siano, allora, in tema di sicurezza individuale e collettiva, un conto è regolamentare i processi lavorativi, per esempio obbligando i lavoratori ad utilizzare specifici dispositivi, fossero anche i più disagevoli possibile; altro è subordinare l’accesso ai luoghi di lavoro, e dunque al pieno soddisfacimento del diritto al lavoro, a qualsivoglia altra condizione. Del resto, oggi la tecnica e la scienza consentono di avvalersi di un’ampia gamma di misure a tutela della sicurezza che ogni altra tipologia di compressione del suddetto diritto al lavoro è a dir poco strumentale, se non addirittura criminogeno, e dunque contro l’articolo 4 della Costituzione.

Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872 Online). Numero 14A21 del 25/11/2021