Due vicende di cronaca giudiziaria (italiana) che in qualche misura, da più parti, hanno fatto porre degli interrogativi sul senso ed efficacia dello “Stato di diritto”. La prima riguarda la decisione della Corte di Cassazione in merito alla vicenda dell’ex Imam di Milano (noto come Abu Omar), secondo l’accusa sequestrato, torturato e deportato in Egitto nel 2003. Annullando con rinvio la sentenza della Corte territoriale la quale - in base al principio del segreto di Stato - aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti di alti funzionari dello Stato. Principio, appunto, non condiviso dai giudici di Piazza Cavour. La seconda vicenda riguarda il caso di Federico Aldrovandi, il giovane morto nel 2005 a Ferrara in cui rimasero coinvolti alcuni agenti di polizia in servizio. In questo caso, la Corte di Cassazione ha reso definitive le condanne per omicidio (colposo) a carico di quegli stessi poliziotti. Rilevando che gli agenti “posero in essere un’azione repressiva estrema e inutile nei confronti di un ragazzo che si trovava da solo, in stato di visibile alterazione psicofisica, errando gravemente nella valutazione dei limiti fattuali”. Pongo l’accento su questi due fatti di cronaca per una palese analogia che in qualche modo li accomuna e che ha sollevato nel tempo non poche polemiche. Cioè da una parte abbiamo lo Stato con i suoi rappresentanti, in un’unica parola il Potere; dall’altra il cittadino comune. Ed è questo il punto, nel senso che non è sufficiente per un Paese darsi uno Stato di diritto - condizione che fonda la sua legittimità non sul potere arbitrario del sovrano, ma su una costituzione che tutela i diritti fondamentali del cittadino - ma è anche necessario che taluni principi costituzionali trovino poi riscontro nella realtà di tutti i giorni. La questione qui presa in esame da una parte sembra dimostrare l’imparzialità verso chi esercita il potere e chi, viceversa, lo subisce; dall’altra, a mio avviso, lascia in sospeso ancora molti dubbi.