La Febbre del sabato Sera, titolo del celebre film con John Travolta uscito negli Stati Uniti nel 1977 e l’anno dopo in Italia, la cui colonna sonora balzò subito al primo posto delle classifiche, torna dal 18 ottobre fino a gennaio, versione musical in italiano, al Teatro Nazionale di Milano. Ecco quindi che torna Tony Manero, il giovanotto di origini italiane che vive in modo a dir poco discutibile in un sobborgo di New York. Un film la cui trama originale lascia intravedere la manifesta voglia di evadere da parte di una generazione segnata da un pessimismo che fa seguito agli eventi socio-politici degenerativi di quegli anni. È un tema attuale su cui oggi riflettere molto attentamente, ma anche una sorta di lume sul futuro, a mio avviso.
L’universo carcerario
Una vicenda, anzi più di una a come sembra, che lasciano sgomenti, ciò aldilà se i fatti saranno o no acclarati in sede di accertamento giudiziario. Proprio così, perché solo il fatto che due donne, in circostanze e momenti distinti possano arrivare a denunciare (almeno in un caso) di stupro un agente di polizia penitenziaria (vicecomandante di reparto) in servizio dove si trovavano detenute, significa almeno due cose. La prima è che l’accusato almeno una volta si è trovato a rimanere da solo con le denunzianti; la seconda è che non esiste o è elusa in seno al carcere la ragionevole misura precauzionale secondo la quale ciò non dovrebbe essere possibile, ovverosia consentito. Premesso ciò e scontato che l’organizzazione carceraria è ispirata al principio dell’umanizzazione della pena detentiva, non lo è a quanto sembra emergere dal caso in esame che in tali organizzazioni, dette complesse, debbano realmente trovare applicazione norme e ruoli che stabiliscano i vari compiti, non da ultimi quelli di controllo. Diversamente da quest'ultimo principio, a mio modo di vedere, è l’intero sistema ad essere messo in discussione e non già il comportamento del singolo individuo che eventualmente ne risponderà secondo legge.
Islam e Occidente
I ministri degli Esteri dei cinquantasette Paesi dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica, condannando unanimemente il film (prodotto in America) definito blasfemo sul Profeta Maometto, hanno allo stesso tempo sollecitato leggi che puniscano l'incitamento all'odio religioso. Nel comunicato finale della riunione svoltasi a margine dell'Assemblea generale dell'Onu, i Paesi musulmani hanno avvertito che la libertà di espressione deve essere usata con responsabilità e per questo i governi nel mondo devono assumere tutte le misure necessarie (incluse la legislazione) contro atti che portano all'incitamento all'odio, alla discriminazione e alla violenza su base religiosa. Nulla da eccepire dal punto di vista formale, sempreché nella sostanza tali auspici si concretino anche in tutti quei Paesi da cui proviene il condivisibile sollecito e che, in ogni caso, nessuna blasfemia può mai giustificare rappresaglie violente di alcun genere. Solo a quel punto, a mio avviso, avrebbe un senso tale appello.
Potere e Stato di diritto
Due vicende di cronaca giudiziaria (italiana) che in qualche misura, da più parti, hanno fatto porre degli interrogativi sul senso ed efficacia dello “Stato di diritto”. La prima riguarda la decisione della Corte di Cassazione in merito alla vicenda dell’ex Imam di Milano (noto come Abu Omar), secondo l’accusa sequestrato, torturato e deportato in Egitto nel 2003. Annullando con rinvio la sentenza della Corte territoriale la quale - in base al principio del segreto di Stato - aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti di alti funzionari dello Stato. Principio, appunto, non condiviso dai giudici di Piazza Cavour. La seconda vicenda riguarda il caso di Federico Aldrovandi, il giovane morto nel 2005 a Ferrara in cui rimasero coinvolti alcuni agenti di polizia in servizio. In questo caso, la Corte di Cassazione ha reso definitive le condanne per omicidio (colposo) a carico di quegli stessi poliziotti. Rilevando che gli agenti “posero in essere un’azione repressiva estrema e inutile nei confronti di un ragazzo che si trovava da solo, in stato di visibile alterazione psicofisica, errando gravemente nella valutazione dei limiti fattuali”. Pongo l’accento su questi due fatti di cronaca per una palese analogia che in qualche modo li accomuna e che ha sollevato nel tempo non poche polemiche. Cioè da una parte abbiamo lo Stato con i suoi rappresentanti, in un’unica parola il Potere; dall’altra il cittadino comune. Ed è questo il punto, nel senso che non è sufficiente per un Paese darsi uno Stato di diritto - condizione che fonda la sua legittimità non sul potere arbitrario del sovrano, ma su una costituzione che tutela i diritti fondamentali del cittadino - ma è anche necessario che taluni principi costituzionali trovino poi riscontro nella realtà di tutti i giorni. La questione qui presa in esame da una parte sembra dimostrare l’imparzialità verso chi esercita il potere e chi, viceversa, lo subisce; dall’altra, a mio avviso, lascia in sospeso ancora molti dubbi.
Crimine e scienza
Brevi riflessioni di criminologia, vittimologia, criminalistica. È di questi giorni la notizia diramata dai media secondo cui è stato tipizzato il Dna del padre del presunto assassino di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate Sopra - sequestrata e uccisa - ritrovata il 26 febbraio 2011 a tre mesi dalla scomparsa. Oltre un anno e mezzo di indagini senza esiti sostanziali, almeno fino ad ora. Polemiche e scontri di opinioni tra chi rivendica la genuinità delle investigazioni fin qui eseguite e chi, viceversa, ne manifesta forti perplessità. Il Dna analizzato ha dei punti di contatto con quello trovato sugli indumenti della vittima, ma appartiene a un uomo morto oltre un decennio fa. Questo dato, secondo taluni, dimostra che la persona deceduta può essere il padre dell'assassino e che il caso è prossimo alla soluzione. Mentre, secondo altri il dato acquisito rimane tale in assenza di ulteriori riscontri oggettivi. Ed è proprio questo il punto, di cui si è avuta esperienza già in passato in altri casi giudiziari di altrettanta efferatezza e gravità (ad esempio: delitto Cesaroni, Roma 1990 – delitto Poggi, Garlasco 2007). Nel senso che individuare il Dna di qualcuno sulla scena del crimine o sulla vittima, sui vestiti eccetera, non potrà mai portare a sostenere con ragionevole certezza che è stato individuato un assassino, perché va valutato se colui al quale appartiene il Dna aveva contatti abituali con la vittima o se il contatto è stato occasionale piuttosto che accidentale; e che in tutte le ipotesi ci si troverebbe di fronte unicamente a un forte indizio di reità che però difficilmente - da solo - potrà reggere in sede dibattimentale. Non è in discussione, pertanto, l’importante risultato ottenuto per mezzo dell’evoluzione scientifica cui siamo giunti, ma per attribuire la responsabilità di un evento delittuoso - al di la di ogni ragionevole dubbio, così come da disposizione di legge - ci vuole anche altro.
Undici anni dopo
Era l’11 settembre 2001, data drammaticamente storica, quando negli Stati Uniti avvennero gli attentati che costarono la vita a circa tremila persone. A undici anni dagli attentati l'America, con una cerimonia all'insegna della sobrietà, ricorda la più grave strage che abbia mai colpito gli Stati Uniti. A Ground Zero, New York, lì dove sorgevano le Torri Gemelle, si tiene la straziante lettura dei nomi delle quasi tremila vittime di quella indimenticabile giornata. Non solo quelle provocate dai due aerei abbattutisi contro il World Trade Center di Manhattan, ma anche quelle provocate dall'aereo schiantatosi sul Pentagono, nonché i passeggeri a bordo del quarto aereo precipitato in Pennsylvania prima che potesse centrare la sede del Congresso americano, o la Casa Bianca, a Washington. “L'America oggi è più forte, più sicura e più rispettata”, ha affermato il Presidente Obama ricordando l'11 settembre di undici anni fa nel suo discorso settimanale alle famiglie americane. “E oggi - ha aggiunto - una nuova torre si eleva nell'orizzonte di New York”. Ha parlato anche il ministro della difesa Panetta che ha invitato gli americani a non dimenticare i soldati che combattono e muoiono in Afghanistan.
L’ANM contro Ingroia
Non ci sono dubbi, secondo il Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, l'invito partito dall'inquirente palermitano Antonio Ingroia a cambiare la classe dirigente del Paese appanna in qualche misura l'imparzialità della magistratura poiché ha fatto un’affermazione puramente politica. Lo stesso, dicasi per il collega Nino Di Matteo, i quali entrambi avrebbero dovuto dissociarsi dal plateale dissenso manifestato dai presenti alla Festa del Fatto Quotidiano nei confronti del capo dello Stato, tenutasi pochi giorni fa a Marina di Pietrasanta. Il Presidente ANM Rodolfo Sabelli, in sostanza rileva che tutti i magistrati, soprattutto quelli che svolgono indagini particolarmente delicate, devono astenersi da comportamenti che possono offuscare la loro immagine d’imparzialità, vale a dire da comportamenti politici. Con il suo invito a cambiare la classe dirigente del Paese Ingroia si è spinto a fare un’affermazione che ha oggettivamente un contenuto politico, con il rischio così di appannare la sua immagine d’imparzialità. Ancora peggio, prosegue Sabelli, hanno sbagliato i due PM ad assistere in silenzio alla plateale manifestazione di dissenso nei confronti del Capo dello Stato, infatti, in una tale situazione, un magistrato deve dissociarsi e allontanarsi, al fine di evitare sovraesposizioni e a non mostrarsi sensibile al consenso di piazza. Difficile dare torto al richiamo del Presidente Sabelli, tuttavia, lo status quo è assai confusionario e ricco di legittime motivazioni da pretendere il totale rinnovamento della classe dirigente del nostro Paese, che rimane altrettanto difficile non condividere e supportare il coraggio di esporsi che hanno avuto i due magistrati palermitani.